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Le strutture economiche dei secoli XVI e XVII

I secoli XVI e XVII fecero da ponte tra il mondo feudale e mondo capitalistico moderno, facilitando il passaggio dall'uno all'altro: tra i due mondi non vi fu una linea di separazione netta, e in quel periodo gli europei parteciparono di entrambi i modi di vita.

Denaro e capitalismo
All'inizio dell'età moderna il denaro aveva un ruolo relativamente limitato nella vita europea: in alcune regioni il baratto aveva ancora un'importanza preponderante e in qualche paese, come in Svezia, non si usava negli scambi la moneta metallica. Ciò era dovuto principalmente al fatto che le comunità rurali continuavano a essere autosufficienti rispetto alla domanda interna; solo quando l'economia urbana cominciò a integrarsi con quella delle campagne e il commercio estero divenne una necessità, si avvertì il bisogno della moneta come mezzo di scambio. Ma anche allora la gente del popolo ebbe di rado tra le mani pezzi d'oro e d'argento e si limitò quasi sempre a usare monete di piccolo taglio, di rame o di altri metalli vili: la circolazione dei metalli preziosi, soggetta a rigorose restrizioni, interessava per lo più solo un piccolo numero di mercanti. Per questa ragione, e per il fatto che nelle normali attività dei produttori agricoli il credito deve aver prevalso rispetto alle operazioni in contanti, l'economia monetaria, pur esistendo come possibilità, rimaneva ben lontana dall'improntare la realtà quotidiana.
Essa era addirittura allo stato nascente nei paesi baltici, nei Balcani e in vaste zone dell'Europa occidentale, dove la vita economica aveva ancora un carattere primitivo. La Svezia cominciò a disporre di una quantità di metallo sufficiente per creare un sistema monetario solo dopo aver avviato lo sfruttamento delle sue miniere di rame: prima d'allora i contadini pagavano i loro tributi sotto forma di prestazioni d'opera e ricevevano salari in natura anziché in denaro. Nella maggior parte delle campagne europee la quota di reddito percepita in contanti, sia dai lavoratori che dai proprietari terrieri, era molto piccola. […]
Accanto a questo mondo ancora primitivo si andò formando un sistema sempre più complesso di capitalismo finanziario: la conversione dei tributi feudali in pagamenti in denaro, l'espandersi delle manifatture, dei traffici e dei mercati, la decadenza del divieto di prestito a interesse fecero sì che il denaro assumesse maggiore importanza nella vita delle comunità. Nel periodo in questione la massa monetaria esistente in Europa aumentò notevolmente, sia per l'incremento della popolazione, della domanda e della velocità di circolazione, sia per le ingenti importazioni di metalli preziosi dall'America, avvenute non solo attraverso i canali ufficiali esaminati da Hamilton, ma anche mediante il contrabbando e l'attività dei corsari. I numerosi provvedimenti di coniazione, riconiazione e svilimento della moneta ebbero tutti lo scopo di accrescere la quantità circolante; ma quest'ultimo, come si è visto, rimase in gran parte nelle mani delle classi superiori, dei mercanti e degli abitanti delle città, senza arrivare a diffondersi tra la gente del popolo e nel mondo rurale.
La novità più interessante nell'economia monetaria del Cinquecento fu la manovra del capitale per mezzo del credito. Il credito in quanto tale esisteva già, e avrebbe conosciuto i suoi massimi trionfi solo molto più tardi; ma fu in questo periodo che le attività dei finanzieri aprirono nuove prospettive all'utilizzazione del capitale. Secondo le parole di Marx, «le due caratteristiche immanenti al sistema creditizio erano da un lato di dare maggiore incentivo alla produzione capitalistica […], e dall'altro di costituire la forma di transizione verso un nuovo modo di produzione». Marx si riferiva al sistema creditizio del suo tempo, ma le sue osservazioni valgono ugualmente nel contesto dei due secoli in esame, in cui il credito rappresentò uno strumento essenziale per il passaggio al capitalismo: innanzi tutto perché accrebbe la mobilità del capitale e facilitò gli investimenti, e in secondo luogo perché diede ai principali manovratori del credito, i borghesi, la possibilità di accumulare proprietà fondiarie a spese sia dei nobili che dei contadini.
Il meccanismo del credito era molto diverso da un paese all'altro, e al suo livello più basso era fondato sull'attività dei prestatori di denaro. Come ha osservato Tawney, nell'Inghilterra del Cinquecento «la grande maggioranza dei prestatori era formata nelle zone rurali da agricoltori, piccoli proprietari indipendenti e membri della nobiltà minore, e nelle città da mercanti, bottegai, negozianti di tessuti, sarti, merciai, droghieri e altri esercenti». Il maneggio del denaro era affidato soprattutto a chi svolgeva commerci direttamente connessi con le attività produttive, come gli orefici o i mercanti di stoffe; ma furono proprio costoro ad abbandonare tali attività man mano che aumentava il volume delle operazioni puramente monetarie. Nella seconda metà del Cinquecento assunse grande importanza nel mondo della finanza la professione di notaio: in origine si era trattato di commessi incaricati di curare questioni legali e d'affari, ma con l'intensificarsi dei traffici e dei passaggi di proprietà della terra essi divennero indispensabili e presero a occuparsi direttamente di molte operazioni finanziarie, assumendo un ruolo di primo piano come intermediari di credito o agenti monetari. Poiché le operazioni connesse con questi compiti erano eseguite prevalentemente in valuta reale, maneggiata in primo luogo dagli orefici, questi ultimi sono stati considerati da molti storici inglesi come i predecessori dei moderni banchieri; in realtà nel Cinquecento tutti gli agenti monetari partecipavano a operazioni in denaro liquido, concedendo prestiti e accettando depositi. Nel 1660 un osservatore scriveva: «Gli orafi di Lombard Street […] hanno oggi la stessa funzione dei banchieri di Amsterdam [...], perché custodiscono denaro contante di molti grandi mercanti londinesi». Questo sistema di deposito presso agenti privati, praticato in gran parte dell'Europa occidentale già molto prima del 1550, diede origine a due innovazioni importanti. Il fatto che gli agenti accettassero depositi significava chiaramente che si erano già trasformati in banchieri privati; per di più, là dove non chiedevano alcun compenso per tale servizio essi tendevano a investire il denaro depositato in prestiti, alla maniera moderna. Un depositante che richiedesse il suo capitale poteva riaverlo in contanti o, come spesso accadeva, sotto forma di credito; per guadagnarsi ancor più la sua fiducia, il banchiere poteva concedergli uno scoperto. L'espansione dei depositi e dei servizi di credito fu una caratteristica essenziale delle banche private, che si svilupparono, più che nell'Europa settentrionale, in quella che era sempre stata la loro patria, l'Europa mediterranea.
Per la loro stessa natura, queste banche erano una fonte d'insicurezza. I capitali erano relativamente esigui e spesso i depositi venivano investiti in speculazioni molto rischiose; l'esercizio del credito era precario, perché bastava qualche voce allarmistica un po' insistente per provocare una corsa al ritiro dei depositi, e quindi il fallimento della banca. Nel caso di banchieri impegnati negli scambi internazionali, una crisi sopraggiunta in un luogo qualsiasi, ad Anversa come in Spagna, poteva portare alla rovina numerose ditte, come accadde nell'Europa continentale quando la monarchia spagnola, nel 1557 e negli anni seguenti, ripudiò i propri debiti. L'incertezza del credito colpiva sia i grandi finanzieri che i banchieri minori impotenti a difendersi, in Francia come in Germania, nei Paesi Bassi o in Italia: nel 1584 un uomo di stato veneziano, Tommaso Contarini, notava che delle 103 banche private esistenti un tempo a Venezia ben 96 erano fallite. In Francia le guerre di religione accelerarono il tracollo: nel 1575 vi erano ancora a Lione 41 banche, che si ridussero a una ventina nel 1580 e a sole quattro nel 1592. Particolarmente disastroso fu a quanto pare il triennio 1587-89, in cui soltanto in Spagna e in Italia si ebbero 20 fallimenti di grandi banche.
L'insicurezza finanziaria generata da questi crolli fu uno dei motivi principali che portarono all'istituzione delle banche pubbliche. Già nel primo Cinquecento alcune banche erano state chiamate così perché avevano ottenuto una licenza dalle autorità, ma fu solo negli ultimi decenni del secolo che parecchi istituti bancari preesistenti assunsero un carattere più propriamente pubblico. […] La vulnerabilità delle banche private e la difficoltà di ottenere crediti da quelle pubbliche indussero la speculazione finanziaria a cercare profitti altrove, valendosi dei mercanti-banchieri già affermatisi nel medioevo. Sebbene fossero chiamati quasi sempre banchieri dai loro contemporanei, essi erano propriamente dei finanzieri, nel senso che trattavano scambi in denaro, merci e credito e solo di rado svolgevano servizi bancari e di deposito. Sorti come piccoli capitalisti che negoziavano merci, essi estesero le loro attività al cambio monetario internazionale, indispensabile per promuovere i traffici; e poiché non era possibile trasferire da un paese all'altro denaro liquido, fecero ricorso ai trasferimenti di credito, usando come principale strumento la lettera di cambio.
Verso la metà del Cinquecento questo titolo di credito, già da tempo largamente in uso, si era saldamente affermato nel mondo finanziario: come osservava nel 1543 un finanziere di Anversa, Jan Impyn, «non si può commerciare senza cambiali, così come non si può navigare senz'acqua». Tuttavia a quel tempo la cambiale aveva spesso poco a che fare con il commercio […] Ad esempio, una cambiale emessa ad Anversa e pagabile a Lione entro tre mesi poteva rappresentare un'operazione puramente finanziaria, un normale prestito; vi erano però due aspetti importanti che ne facevano qualcosa di più. Innanzi tutto, il lasso di tempo previsto stava a indicare che si trattava di un credito dilazionato; inoltre, benché il pagamento da eseguire a Lione corrispondesse esattamente alla somma prestata, al suo importo si sarebbero aggiunti dei costi, relativi all'operazione e alla differenza tra i tassi di cambio, che si sarebbero accumulati fino al pagamento della cambiale. È chiaro che veniva così a crearsi un mercato dei capitali in cui erano praticati, anche se in forma dissimulata, il credito e l'interesse (i «costi»): i finanzieri potevano quindi dare e prendere in prestito denaro in ogni parte d'Europa e ricavarne profitti. […]
Il maggior incentivo allo sviluppo del mercato monetario, che nel Cinquecento portò ad affermarsi le grandi case dei Fugger, dei Grimaldi e degli Herwarth, fu la continua domanda di denaro liquido da parte delle monarchie nazionali dell'Europa occidentali. L'avvento dello Stato come cliente portò i finanzieri ad associarsi in consorzi per far fronte alle sue richieste: anche qui, come nel commercio e nell'industria, la tendenza prevalente era verso la concentrazione e il monopolio. Come ha dimostrato Richard Ehrenberg, le grandi ditte dei Fugger e dei Welser erano, più che imprese familiari, consorzi di capitalisti che investivano il loro denaro a un tasso d'interesse stabilito.
Questo tipo di messa in comune dei capitali diede origine a straordinari profitti. Il genovese Nicolò Grimaldi, che aveva iniziato la sua attività nel 1515 con 80.000 ducati, disponeva nel 1575 di un capitale di oltre cinque milioni; i Fugger, il cui patrimonio ammontava nel 1511 a circa 200.000 fiorini, nel 1527 ne avevano più di due milioni, con un profitto annuo di più del 54 per cento. Essere creditori di uno Stato era evidentemente un vantaggio, specialmente quando questa condizione privilegiata permetteva di esercitare un certo controllo sulle entrate pubbliche e sulla politica commerciale del governo; per di più, ai finanzieri si offriva la possibilità di elevarsi socialmente, come avvenne per esempio ai Fugger, che furono creati principi dell'Impero. Ma l'essere coinvolti nelle vicende di uno Stato presentava inconvenienti che divennero fin troppo palesi dopo il crollo internazionale del 1557 e le ripetute bancarotte della Corona spagnola, particolarmente rovinose per i finanzieri.
Nel Cinquecento la maggior parte dei governi erano in ritardo nel pagamento dei loro debiti e le spese statali erano immancabilmente in anticipo di uno, due o più anni rispetto alle entrate; questa pratica, per quarto corrente, non fu vista mai con favore e alcuni ministri, come Sully, si sforzarono di ridurre le spese e di pareggiare i bilanci. Tuttavia nel secolo seguente i paesi economicamente più progrediti si resero conto che un ingente debito pubblico non era necessariamente una passività. […]
L'espansione del debito pubblico ebbe due conseguenze importanti: da un lato creò nel Cinquecento una vasta categoria di titolari di rendite, appartenenti soprattutto alla borghesia, e dall'altro accrebbe la stabilità finanziaria e politica dei governi, dilazionando la liquidazione dei debiti statali arretrati e legando più strettamente i creditori al regime. In Spagna, dove il dispendioso programma imperiale obbligava lo Stato a un perpetuo deficit finanziario, le rendite dei prestiti pubblici (juros) divennero il sostegno dell'ordine sociale: col passare degli anni il debito dello Stato si accumulò e la possibilità di un rimborso integrale si spostò verso un futuro sempre più lontano.
La crescita del debito pubblico rappresentò un esempio di dilazione del credito, ma il risultato finale di questo particolare fenomeno creditizio fu improduttivo e contrario all'essenza del capitalismo: il denaro fu immobilizzato in pastoie istituzionali e servì solo a mantenere una classe parassitaria di redditieri. Quando il volume dell'attività finanziaria lo richiese, apparve molto più vantaggiosa la fondazione di una banca pubblica di tipo nuovo come la Banca dei cambi di Amsterdam (1609), con servizi di cambio, di deposito e (dopo, il 1614) di credito. […]

Commercio e capitalismo
Nel periodo considerato la formazione del capitale dipendeva soprattutto dal commercio, che alimentava coi suoi profitti l'attività finanziaria e bancaria: la ricchezza di Amsterdam, ad esempio, non era fondata su speculazioni monetarie, ma sui traffici. Lo sviluppo di nuove forme di commercio nel XVI e XVII secolo incontrò peraltro numerosi e gravi ostacoli. I trasporti erano lenti, sia per terra che per mare, e quindi il mercato dei beni deperibili era limitato dal fattore tempo: sul finire del Cinquecento, quando il grano proveniente dal Baltico raggiungeva i paesi mediterranei ai quali era destinato, era già vecchio di un anno. Le strade erano in cattivo stato e i traffici terrestri erano rischiosi, specialmente in tempo di guerra; per le merci voluminose era preferibile il trasporto per via d'acqua, che però era anch'esso soggetto agli eventi naturali e alla pirateria. […] I trasporti terrestri a grande distanza erano ostacolati, oltre che dalle difficoltà del terreno e delle condizioni delle strade, dalla mancanza di una forza motrice più efficiente di quella fornita dal cavallo o dal mulo: anche quando le strade furono migliorate (per scopi militari, oltre che commerciali) e furono scavati canali navigabili, i mercati non si ampliarono di molto. La scarsità delle innovazioni tecniche non consentiva di superare le antiche barriere di spazio e di tempo.
Non meno rilevanti erano le barriere create dagli uomini. Dal punto di vista politico e tributario l'Europa dell'ancien regime era un enorme mosaico di piccole giurisdizioni autonome che intralciavano continuamente il transito commerciale; se una strada o un fiume attraversavano territori soggetti a varie giurisdizioni, di norma a ognuna di esse corrispondeva una stazione di pedaggio, e nel tardo Cinquecento Andreas Ryff, un mercante di Basilea in viaggio per Colonia, notò che fra le due città le merci dovevano superare ben 31 barriere doganali. […] È evidente l'effetto cumulativo che tutte queste esazioni avevano sui costi e sulla distribuzione.
A causa degli impedimenti frapposti al commercio interno, la grande espansione dei traffici avvenne soprattutto sui mari e a livello internazionale. I profitti ritraibili dal commercio marittimo erano notevoli, anche nelle acque europee: nella seconda metà del XVI secolo la spedizione del luppolo dai Paesi Bassi all'Inghilterra gravava sul capitale investito solo per il 5 per cento e quella del lino da Tallinn a Lubecca solo per il 6 per cento. Su percorsi più lunghi l'incidenza era maggiore, ma ben pochi mercanti si dedicavano a quest'attività senza trarne guadagni adeguati […]
Le grandi scoperte diedero origine a un sistema di sfruttamento commerciale - organizzato dapprima da portoghesi e spagnoli e più tardi anche da olandesi e inglesi, nella prima fase della loro attività - in cui si acquistavano merci esotiche pregiate in cambio di prodotti considerati di minor valore dagli europei. Lo sviluppo di questi scambi è testimoniato dai dati riguardanti i trasporti marittimi. La stazza complessiva delle navi inviate dalla Spagna in America salì da circa 10.000 tonnellate nel decennio 1520-30 a più di 40.000 nel primo decennio del Seicento; sulle rotte asiatiche il numero delle navi portoghesi andò diminuendo da 150 nel primo decennio del Cinquecento a 23 nell'ultimo decennio del Seicento, ma grazie al contributo degli olandesi e degli inglesi il numero totale di navi europee inviate in Asia ogni decennio aumentò da una cinquantina intorno alla metà del XVI secolo a più di 400 nella seconda metà del secolo seguente.
Per la maggior parte del periodo in esame i traffici con l'America furono centrati soprattutto sull'importazione di metalli preziosi, che però, come si è visto, non rimanevano nella penisola iberica
ma venivano dirottati lungo le grandi vie commerciali europee, contribuendo a far lievitare i prezzi e a stimolare l'economia mercantile degli altri paesi. Una certa quota era riesportata dall'Europa nel Levante e in Asia: nel 1595 la sola Venezia inviò in Siria più di 13 tonnellate d'argento in pagamento di merci. Un'altra parte della produzione americana di metalli preziosi arrivava in Europa attraverso la pirateria a danno della Spagna e delle sue colonie: nel 1617 l'ambasciatore veneto a Londra affermava che «a quanto pare nulla è servito tanto ad arricchire gli inglesi, facendo accumulare a molti di essi ingenti patrimoni, quanto le guerre con la Spagna». In cambio dei metalli preziosi gli spagnoli avevano ben poco da offrire all'America: da principio la madrepatria vi esportò una limitata gamma di prodotti (tessuti, vini, olio d'oliva, ferramenta), ma presto i coloni divennero autosufficienti, mentre mancava del tutto una domanda da parte degli indigeni. Per di più il sistema di rifornimenti era poco funzionale: nel 1555 il clero di Hispaniola lamentava che «le provviste arrivano qui a intervalli di anni, e [intanto] noi siamo privi di pane, vino, sapone, olio, abiti e biancheria». Per attuare un veto e proprio interscambio con le colonie la Spagna fu costretta a trasformarsi in una stazione di transito dei manufatti provenienti dai vari paesi europei (Inghilterra, Paesi Bassi, Francia), che inondavano la penisola, distruggendo l'industria locale, e da lì proseguivano per l'America; i metalli preziosi importati dalla Spagna finivano cosi nelle mani dei fornitori europei, senza stimolare in misura apprezzabile il capitalismo iberico. Più che un declino, quello della Spagna fu in effetti un mancato decollo, dovuto all'incapacità di elaborare qualcosa di diverso da un sistema commerciale di mero sfruttamento.
Le nazioni che trafficavano con l'Asia si trovarono a fronteggiare una difficoltà analoga, giacché anch'esse avevano poco da offrire in cambio delle spezie e della seta orientali. I veneziani, i portoghesi e i loro successori furono quindi obbligati a invertire la prassi seguita dagli spagnoli, ossia a cedere metalli preziosi anziché importarne. La stessa Spagna ricorse talvolta a questo sistema: a Manila l'argento messicano serviva ad acquistare le sete cinesi che da lì venivano riesportate in Spagna e in America. I mercanti olandesi e inglesi attivi in Asia pagavano in oro e in argento fino ai quattro quinti dei loro acquisti: la Compagnia inglese delle Indie orientali, fondata nel 1600, esportò nel primo decennio della sua esistenza valuta per circa 170.000 sterline, di cui il 70 per cento in metalli preziosi. Allo scopo di frenare quest'emorragia, nella prima metà del XVII secolo gli olandesi organizzarono in Asia un proficuo sistema di trasporti, e negli anni dopo il 1640 la Compagnia olandese delle Indie orientali disponeva di 85 navi adibite esclusivamente ai traffici nei mari asiatici.
Dato il loro carattere di pura speculazione, le iniziative commerciali del primo periodo coloniale non esercitarono uno stimolo efficace sul capitalismo europeo; tuttavia la notevole espansione dei trasporti marittimi fu alla base dell'ulteriore sviluppo dei traffici olandesi e inglesi. La stazza del naviglio mercantile inglese aumentò da 67.000 tonnellate nel 1582 a 115.000 nel 1629 e a 340.000 nel 1686; per quanto riguarda l'Olanda, il suo potenziale marittimo oltrepassò rapidamente quello di tutti i concorrenti e poco dopo 1670 la sua flotta mercantile superava probabilmente per tonnellaggio tutte le altre flotte dell'Europa occidentale messe insieme, compresa quella inglese. Un indice eloquente di questa crescita è dato dall'intensificarsi dell'attività di Amsterdam, dove il gettito dei diritti portuali aumentò, rispetto al 1589, del 310 per cento nel 1620 e dell'805 per cento nel 1700. Nel 1666 i tre quarti dei capitali operanti nella Borsa di Amsterdam erano connessi col commercio baltico, definito da Johan De Witt «la fonte principale dei traffici e della navigazione del nostro paese».
In generale la grandiosa espansione delle attività mercantili fu resa possibile da quattro fattori principali: la facilità di credito, lo sviluppo delle assicurazioni, i progressi nella tecnica delle costru-zioni navali e la nascita della società per azioni.
La necessità del credito era molto sentita, giacché senza di esso la disponibilità ad assumersi i rischi del commercio aveva scarse possibilità di tradursi in iniziative concrete. Il credito permetteva anche ai piccoli mercanti di dedicarsi a imprese fortemente speculative c di passare dai sicuri commerci locali ai traffici su lunghe distanze; inoltre, dato che nei grandi investimenti di capitali il ciclo d'affari era lento a chiudersi (come dimostra il caso della ditta De La Faille di Anversa, le cui operazioni commerciali con Siviglia avevano una durata variabile dai 9 ai 13 mesi), una dilazione nella restituzione del capitale impegnato in una data iniziativa consentiva di avviarne nel frattempo un'altra. In casi come questi l'uso della lettera di cambio accrebbe la mobilità del capitale e facilitò il compito dei mercanti. Non meno importante dello sviluppo del credito fu la riduzione dei rischi dovuta al diffondersi delle assicurazioni sui trasporti marittimi.
A rigore i perfezionamenti nelle costruzioni navali furono, più che una causa, una logica conseguenza dell'espansione commerciale. Il problema iniziale - realizzare un tipo di nave di stazza sufficiente per rendere proficuo il commercio su lunghe distanze - era complicato dalla necessità di adattare il naviglio ai diversi mari a cui era destinato e di munirlo eventualmente di artiglierie. Il mercantile di maggior successo elaborato in questo periodo dagli olandesi, sempre all'avanguardia nelle costruzioni navali, fu il fluyt (1595), progettato specialmente per il commercio coi paesi baltici e privo o quasi di cannoni: sebbene inadatto alla navigazione atlantica o mediterranea e dotato di scarsa autonomia, esso divenne simbolo della supremazia conquistata dai capitalisti delle Province Unite nei mari europei.
Nessuno dei tre fattori fin qui considerati implicava innovazioni tecniche radicali; non può dirsi lo stesso della società per azioni, che segnò un notevole allontanamento dalla prassi precedente. Fin allora le società commerciali «regolate» (regulated companies) erano state formate da un certo numero di mercanti che mettevano in comune i loro capitali per condurre insieme una singola operazione, alla fine della quale venivano divisi i proventi, la società si scioglieva e concettualmente ciascun partecipante era libero di ritirare la propria quota di capitale. La società per azioni propriamente detta era fondata invece non tanto sulla cooperazione tra più mercanti, quanto sul conferimento permanente di un capitale; investito con continuità c non ridiviso dopo ogni affare. Il ristretto orizzonte della partecipazione personale e della società commerciale privata fu così superato dalla creazione di una stamina in cui l'intervento diretto dei soci non era più necessario: gli interessati acquistavano azioni della società e questa commerciava per loro conto. Raccogliendo denaro da vane fonti e non solo dai mercanti, gli amministratori erano in grado di costituire capitali liquidi considerevoli e di perseguire programmi a lunga scadenza; al tempo stesso i mercanti potevano partecipare per delega a più iniziative contemporaneamente, senza dover trascurare quelle che richiedessero di essere condotte personalmente. La società per azioni rendeva possibili per la prima volta operazioni commerciali su larga scala, a lungo termine e tendenzialmente monopolistiche, giacché era ben difficile competere con organismi dotati di risorse così ingenti (in verità anche la regulated company aveva la tendenza a diventare monopolistica, ma tra i suoi membri poteva sussistere, almeno in teoria, una certa concorrenza).
In Inghilterra la prima società per azioni fu costituita nel 1553 da una ditta minore, la Compagnia della Moscovia; il primo grande organismo che ne seguì l'esempio fu la Compagnia delle Indie orientali, nata nel 1600 come regulated company e trasformata nel 1612 in società d'investimento, anche se la partecipazione dei soci assunse un carattere permanente solo nel 1657. Nel 1602 fu fondata la Compagnia olandese delle Indie orientali, dotata di un capitale azionario dieci volte maggiore di quello della società inglese. Le due Compagnie e le altre analoghe sorte in seguito ebbero un notevole sviluppo, e nel 1703 le disponibilità finanziarie complessive delle società per azioni inglesi avevano raggiunto gli otto milioni di sterline: una simile concentrazione di capitale commerciale ebbe l'effetto di accrescere la ricchezza e la posizione sociale delle classi mercantili, di stimolare l'industria e di dare maggior potere e prestigio allo Stato.

Le manifatture e la preindustria
Nei secoli XVI e XVII le attività industriali utilizzavano una quota relativamente piccola del capitale e della manodopera disponibili; sebbene la produzione aumentasse vistosamente in alcuni settori (ad esempio la quantità di carbone estratta in Inghilterra crebbe di 14 volte tra il decennio 1550-60 e il decennio 1680-90), l'effetto di questi aumenti sull'economia fu solo marginale e mancò quel salto qualitativo che più tardi avrebbe reso possibile la rivoluzione industriale. Naturalmente le capacità innovatrici dell'uomo, e quindi il mutamento tecnologico, non vennero mai meno: vi furono perfezionamenti importanti; nella coltivazione delle miniere, nell'estrazione dei metalli (procedimento di amalgamazione dell'argento col mercurio, introdotto in America verso la metà del Cinquecento), nell'industria tessile (telaio meccanico «olandese», inventato nel 1604), in quella delle armi e in varie altre industrie.
Era possibile trovare imprese di grandi dimensioni solo nel settore tessile e in quello minerario. L'industria tessile era la più importante di tutte e occupava un'ingente manodopera, ma per la maggior parte il lavoro veniva eseguito a domicilio nelle zone rurali, anziché nelle fabbriche; tra queste ultime, la più grande era forse lo stabilimento francese dei Gobelins, diretto dai Van Robais, impiegava ben 1700 operai distribuiti in vari reparti. Le grandi miniere di carbone occupavano in media un centinaio di operai: nel primo Cinquecento la più importante miniera di Liegi ne contava 120, nel 1679 quella di Kincardine (Scozia) ne impiegava 71 e nel primo Seicento nella miniera di Grand Lease presso Newcastle lavoravano, in sotterraneo e in superficie, 500 persone. Fra tutte le aziende minerarie emergevano le cave di allume di Tolfa presso Civitavecchia, che nel 1557 formavano, coi loro 711 operai, uno dei maggiori complessi produttivi del tempo; ancora più grandi potevano essere alcuni stabilimenti che impiegavano manodopera fluttuante, come l'arsenale di Venezia, dove nel 1560 lavoravano qualcosa come 2346 persone.
Tra i maggiori ostacoli che i potenziali investitori e capitalisti dovevano affrontare vi erano le tradizionali restrizioni riguardanti la quantità e la qualità dei prodotti e l'orario di lavoro: il telaio
«olandese», ad esempio, fu aspramente avversato sia dagli operai che dalle corporazioni. Fin dal medioevo queste ultime - rappresentanti singoli mestieri o gruppi di mestieri - avevano regolato le modalità di assunzione e di addestramento della manodopera e le caratteristiche della produzione. Tipiche erano le norme stabilite per l'industria tessile di Liegi, dove nel 1589 le corporazioni
decisero di permettere solo l'uso di telai a quadro unico, «così che il povero abbia anch'egli la possibilità di vivere e non venga oppresso dal ricco»; la produzione era limitata a «non più di due pezze la settimana» ed era vietato acquistare più di 12 libbre di lana per volta. Nel 1618 le stesse corporazioni stabilirono che l'apprendistato durasse otto anni. L'osservanza integrale di queste norme avrebbe limitato gravemente il numero degli operai specializzati, il volume e il ritmo della produzione e la diversificazione delle tecniche, imponendo vincoli che erano agli antipodi della mentalità capitalistica e che avrebbero ridotto l'industria tessile alle dimensioni di una manifattura a domicilio.
Gli sforzi delle corporazioni per cercare di tutelare i piccoli produttori, per quanto in sé giustificabili, rappresentavano evidentemente un grosso ostacolo allo sviluppo industriale: a renderli inoperanti contribuirono vari fattori. Uno dei più efficaci fu l'immigrazione di lavoratori stranieri, come si può dedurre da questa protesta mossa contro di loro nel 1616 dalle corporazioni inglesi: «[Gli immigrati] serbano per sé i loro segreti […] e di recente hanno inventato macchine per fabbricare nastri, merletti, fettucce e simili, così che uno solo di loro produce più di sette inglesi». Le corporazioni locali avevano dunque perduto il monopolio delle conoscenze tecniche per di più le loro norme erano applicabili solo ai settori economici già esistenti e ai mestieri tradizionali, e risultava difficile imporre le stesse restrizioni alle nuove industrie e ai nuovi metodi di lavoro. Da parte sua lo Stato, pur vedendo di buon occhio le corporazioni e cercando in ogni modo di rafforzarne il potere di controllo, ammise tante deroghe particolari da indebolire a poco a poco il sistema: la monarchia, per ragioni finanziarie o di altro genere, fece ampie concessioni ai nuovi capitalisti ricchi e indipendenti. In un'epoca di generale mutamento, in cui le vecchie regole non erano più applicabili alle nuove situazioni, tutti questi fattori finirono col rendere inevitabile il tramonto delle tradizionali strutture corporative.
Il graduale declino dell'antico sistema produttivo portò a una ristrutturazione dei metodi, degli investimenti e della manodopera. Le manifatture cominciarono ad allontanarsi dalle città, sia perché nelle campagne, in seguito alla difficile situazione agricola del Cinquecento, si era resa disponibile una manodopera a buon mercato, sia perché nelle città gli imprenditori incontravano tutta una serie di ostacoli, che andavano dall'eccessivo controllo esercitato dalle corporazioni al livello elevato dei costi di produzione e alle crisi economiche causate dalle guerre. Una volta affrancate dalle restrizioni dell'ambiente urbano, le manifatture poterono espandersi liberamente e adattarsi ai propri mercati preferenziali. Questo processo è stato chiamato - con un termine che di recente è stato oggetto di penetranti critiche - «preindustrializzazione»: in esso, si è sostenuto, i produttori capitalisti cominciarono a industrializzare l'ambiente rurale, utilizzando il plusvalore derivante dai minori costi di produzione. Dal XVII secolo in poi si svilupparono su questa base, specialmente nel settore tessile, le manifatture rurali del cosiddetto putting-out system: le unità di produzione a domicilio, talvolta di notevoli dimensioni (si è stimato che in Inghilterra ogni telaio richiedesse 25 operai, tra cui almeno 6 filatori), inviavano i loro prodotti a un unico imprenditore, che provvedeva a vendere i tessuti attraverso la propria rete di distribuzione. Un sistema del genere, fondato sull'impiego di un gran numero di lavoratori rurali bisognosi, si sviluppò rapidamente nell'industria cotoniera che gli immigrati valloni avevano introdotto nel Lancashire: una notizia del 1696 ci informa che «i poveri adibiti alle manifatture di Manchester ammontano, secondo una valutazione per difetto, a più di 40.000».
In alcune regioni la preindustria si diffuse più che in altre. In Italia gli imprenditori furono indotti a trasferire le manifatture nelle zone rurali dalle difficoltà che si frapponevano alla loro attività nei grandi centri; più che un puro e semplice declino, vi fu quindi una dislocazione degli investimenti. In Germania il processo di allontanamento delle industrie dalle città fu accelerato dallo sfacelo conseguente alla guerra dei Trent'anni; un secolo dopo, nel 1748, la produzione dei tessuti di lino slesiani avveniva per l'81 per cento nelle campagne. Il lavoro a domicilio portava occupazione e denaro nelle zone rurali e faceva sì che i contadini non dovessero far affidamento solo sulla terra per sopravvivere; a sua volta la sicurezza economica rendeva più stabili le famiglie, riduceva l'emigrazione e favoriva i matrimoni. I risultati furono ben visibili nella Sassonia Elettorale, dove i lavoratori addetti alle industrie a domicilio passarono tra il XVI e il XVIII secolo dal 5 al 30 per cento della popolazione totale. Vi era tuttavia un aspetto negativo, consistente nel fatto che questo tipo d'industria era in gran parte nelle mani di capitalisti esterni che potevano facilmente ritirare i loro investimenti o imporre condizioni di lavoro sfavorevoli, aggravando cosi la pauperizzazione delle zone rurali.
Il basso livello dei salari provocò numerose proteste sia nelle città che nelle campagne. Nel 1597 fu emanata in Olanda una sentenza contro le condizioni schiavistiche del lavoro minorile, che nel 1636 furono nuovamente condannate dai giudici di Delft; tuttavia nel periodo di massima espansione dell'industria tessile di Leida (1638-48) gli imprenditori di questa città fecero venire da Liegi 4000 orfani da adibire ai telai, e nel 1646 dovette essere emanato un editto con cui si vietava di far lavorare i ragazzi per più di 14 ore al giorno.
I conflitti di lavoro più frequenti furono quelli riguardanti l'arte della stampa. Nel 1567 e nel 1571 si ebbero a Parigi e a Lione tumulti di tipografi che, oltre a protestare contro l'orario di lavoro, chiedevano l'istituzione di associazioni operaie e di un sistema di arbitrato; agli scioperi del 1571-72 nelle due città fece seguito nel 1577 una dimostrazione con cartelli di protesta nelle strade di Parigi. Ad Anversa nel 1572 il famoso editore Christophe Plantin lamentò «l'animosità e lo spirito di rivolta diffuso tra gli operai» che scioperavano per ottenere miglioramenti e ricorse a una serrata, annunziando ai lavoratori che avrebbe chiuso la stamperia; timorosi di perdere il posto, gli operai ripresero il lavoro dopo poche settimane, e più tardi Plantin osservò trionfante che «mentre prima tutti si mostravano riottosi e scontenti, ora sembrano ben disposti a servirmi per il meglio».
Molti lavoratori aderirono ad associazioni segrete di categoria. In Francia queste società (compagnonnages) conobbero nel periodo in esame una notevole fioritura, nonostante l'ostilità dei legislatori: esse implicavano giuramenti, cerimonie iniziatiche e tutto un apparato di carattere quasi religioso, e avevano strane denominazioni come «Figli di Salomone», «Lupi» o «Figli di Maître Jacques». Nel 1655 i compagnonnages furono condannati dalla facoltà di teologia di Parigi.
A Leida si ebbero ripetuti scioperi negli anni 1637, 1638, 1643 e 1648, con aspri contrasti soprattutto nel 1638. Nel periodo 1620-35 vi furono ad Amiens numerose vertenze da parte di lavoratori tessili, e nel 1623 fu fondata un'associazione operaia: «Abbandonarono tutti insieme il lavoro, e quelli che non lo fecero spontaneamente vi furono costretti dai capi degli scioperanti, che erano una ventina o una trentina ed erano noti come “grandi fratelli”». Scioperi e tumulti assunsero particolare gravità nelle grandi città industriali, come a Lione, dove la classe lavoratrice costituiva quasi i due terzi dell'intera popolazione.

(H. Kamen, L’Europa dal 1500 al 1700, Laterza, 2000)
 

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