La rigenerazione calvinista.
La «santificazione», o «rigenerazione», è, per Calvino, un intervento compiuto da Dio sui «predestinati», il quale si inizia contemporaneamente alla «giustificazione», pur restando distinto da quest'ultima. «Cristo non giustifica alcuno» scrive il riformatore di Ginevra «senza a un tempo rigenerarlo». Di preciso, la «rigenerazione» calvinista è un'operazione dello Spirito Santo – e non dunque dell'uomo – volta a dar luogo, già in questa vita, e proprio a cominciare dal momento in cui 1'«eletto» viene «giustificato», a un processo di reale e tangibile rinnovamento dell'«eletto» medesimo, per cui quest'ultimo è reso man mano sempre più capace di ottemperare alla «Legge» e, quindi, di servire Dio. Questo processo è destinato a durare per tutto l'arco dell'esistenza «terrena», concludendosi soltanto con la morte corporea, ultimo e definitivo atto dell'«uccisione dell'uomo carnale».
La «rigenerazione», dunque, opera nel «giustificato» trasformandolo gradualmente; ma tale sua trasformazione non può non riflettersi sulle sue opere, nel senso di renderle – anche se sempre, fino alla morte, rimangono imperfette – via via migliori. Ora, le opere – come è ovvio – non possono non essere «mondanamente visibili»; e anzi per Calvino è bene che quelle del redento siano manifestate coram populo, affinché meglio giovino alla gloria di Dio, che ne è il vero autore. Ma se sono «visibili» le opere del «predestinato», ciò significa allora che egli viene in qualche modo a essere riconoscibile anche nella vita «terrena»: cioè che – contrariamente a quanto sosteneva Lutero – già nel «mondo» comincia a esser possibile distinguere 1'«eletto» dal «riprovato», sia pur senza assoluta certezza, dato appunto che le opere dell'«eletto» stesso, per quanto generalmente buone, sono imperfette, e dato che, in ogni caso, egli continua, sebbene in minor misura – oltreché senza conseguenze sul piano sovrannaturale –, a cadere talvolta nel peccato.
E' ben vero che la riconoscibilità «mondana» dei «giustificati» non viene mai affermata da Calvino in termini espliciti. A suo giudizio, infatti, la consapevolezza dell'«elezione» rimane, in chi ne beneficia, solo un intimo convincimento; e in realtà, quando lo stesso Calvino si domanda come il «fedele» possa esser sicuro dell'«elezione», risponde in sostanza che una simile certezza deve provenirgli dalla fede, la quale appunto è realmente posseduta soltanto dall'«eletto». Tuttavia, Calvino non può d'altra parte evitar di sostenere che la sicurezza dell'«elezione» può derivare al «predestinato» anche dalla coscienza delle proprie buone opere o, meglio, delle opere che Dio compie in lui. Di qui ad asserire che gli «eletti» sono individuabili nel «mondo» in base alle loro azioni, il passo era breve; ed esso doveva esser compiuto dal Beza, successore di Calvino a Ginevra: il che conferma che la «visibilità terrena dei predestinati» era già implicita nel pensiero di quest'ultimo.
Siamo allora in grado, dopo aver brevemente esposto la linea tenuta da Calvino sul tema della «predestinazione» e il suo peculiare concetto riguardante la «rigenerazione», di vedere in che modo egli adoperi l'una e l'altro per lasciarsi alle spalle l'anarchismo luterano, per ovviare al già sottolineato rischio egualitario insito nella sua stessa posizione, e quindi per garantire invece un preciso ordine sul piano ecclesiale e su quello della società. Una simile garanzia gli è data proprio dall'aver ricostituito con un massimo di rigore esclusivistico – sulla base della linea e del concetto cui or ora si è fatto cenno - l'élite dei «predestinati», da lui intesa come quella schiera di uomini che non solo attendono fiduciosi la finale «salvezza», ma che già nella vita presente operano al servizio di Dio, ovviamente sotto il suo immediato impulso, in maniera positiva, diretta e visibile, allo scopo di ridurre per quanto possibile la «terra» all'obbedienza almeno «esteriore» di Dio stesso, così da costringerla a farsi strumento di apparizione della «gloria del Signore».
Trattasi dunque di una élite che risulta di tipo nuovo sotto due profili. Innanzitutto perché è composta di uomini dediti non solo e non tanto alla contemplazione e alla preghiera, quanto al deciso e sistematico intervento nel «mondo». E in secondo luogo perché – come si è illustrato poco sopra – essa inevitabilmente diviene «visibile» sulla «terra», ciò che appunto la sollecita a compiere quell'intervento in modo pieno e dispiegato e, soggettivamente, in forma rigorista. A una élite siffatta Calvino può allora affidare, con tutta sicurezza, la tutela di un compatto ordine – finalizzato, giova ripetere, alla gloria di Dio – sia nella Chiesa «esteriore», sia nella società civile e nello Stato.
Il ruolo storico di Calvino: considerazioni conclusive.
I risultati cui, sul piano politico, sociale ed economico, Calvino giunge per questa via, sono lontani dall'esaurirsi nella nuova costituzione da lui data alla città di Ginevra, trasformandola in una repubblica sostanzialmente teocratica, e sono altrettanto lungi dal rimanere circoscritti entro le particolari vedute di Calvino stesso, più o meno omogenee alla situazione che egli concorre a determinare in quella repubblica. Senza dubbio, quei risultati hanno un respiro storico incomparabilmente più ampio. Essi consistono infatti, in breve, nella fondazione di premesse ideali che, tradotte in termini laici, consentiranno di edificare — di fronte al crollo definitivo della società signorile, ma nel mancato superamento dell'antropologia che le era propria — una nuova direzione del sistema sociale, omogenea appunto alla nuova fisionomia di quest'ultimo, storicamente trasformato in senso borghese.
Sta di fatto che nell'assetto istituito dalla borghesia, sebbene non si esca dal privatismo proprietario, e sebbene i detentori della proprietà restino una élite, questa stessa élite cambia però radicalmente di obiettivo e di ruolo. Essa non si pone più — a differenza di quella signorile — la meta dell'otium, dell'assoluta «libertà» dalla sfera del lavoro e della vita economica (che comporta il disprezzo per tali aspetti); si prefigge invece il conseguimento del «successo» — sul piano della «concorrenza» — proprio all'interno di quella sfera, trasponendo la proprietà delle ricchezze ordinate alla liberazione dal lavoro in proprietà del capitale, e puntando sulla massima accumulazione possibile di quest'ultimo. In tal modo, mentre la proprietà resta trasformata e resa dinamica nel quadro di questa sua diversa funzione (che è precisamente, oramai, di farsi strumento efficiente della massimizzazione del capitale), il proprietario, dal canto suo, diviene il custode — il garante e il diuturno promotore — del rigoroso adempimento di una simile funzione.
Ma quest'opera di custodia (di garanzia e di promozione) non può essere espletata se non sottoponendo tutti gli uomini all'obbligo di un lavoro continuo, intenso, ordinato all'astratto e alienante obiettivo — ripetiamo — della massimizzazione del capitale, e perciò espletato nei modi di quella particolare e chiusa forma di razionalità che è l'efficienza. E dunque in ciò che viene a tradursi laicamente il ruolo «terreno» assegnato da Calvino — contro l'anarchismo di Lutero e contro l'otium dei monaci e dei signori della cattolicità — all'élite dei «predestinati» e «rigenerati»: quel ruolo che egli faceva consistere, come si è detto, nel conformare in maniera intransigente e forzosa il «mondo» al perseguimento del fine (per l'uomo, nei termini calvinisti, astratto e alienante) della massima esaltazione della «gloria di Dio».
Si può allora concludere che il calvinismo — sul piano, beninteso, e attraverso i concetti religiosi che gli sono propri — contribuisce decisivamente a fondare sotto un duplice profilo le condizioni ideali per l'affermazione dell'assetto borghese, in quanto comportante il trionfo di un'economia la cui essenziale caratteristica è quella dell'utilizzazione del lavoro alienato di tutti in funzione dell'incremento massimo del capitale. In primo luogo, il calvinismo concorre in modo storicamente insostituibile a tale fondazione perché aliena totalmente l'uomo, tutti gli uomini (e quindi, oggettivamente, una delle loro attività peculiari, il lavoro), finalizzandoli comunque ad altro da sé; in secondo luogo perché, nell'ambito di questa comune alienazione, istituisce il ruolo direttivo di una nuova élite, che laicamente e socialmente si traduce nella figura del «funzionario del capitale», cioè del garante e promotore – anch'egli alienato – del lavoro alienato di tutti, in ordine appunto all'accumulazione capitalistica.
(da Vittorio Tranquilli,
Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, Ricciardi Editore, 1979., pp. 611-618)