c) Perché la società terrena e i suoi ordinamenti debbono, per Lutero, continuare a sussistere.
Nella compatta assenza di qualsiasi valore e aspetto qualitativo, nell'appiattimento totale sulla squallida eguaglianza dei servi, sta in effetti la nota predominante della società «terrena» descritta da Lutero; la sua unica qualità residua è se mai, a voler esser precisi, quella del male. In una società siffatta non può dunque rimanere in piedi alcuna reale distinzione, né tanto meno alcuna gerarchia, fra le varie «opere» che essa continua necessariamente a comportare: in questo modo, ma dunque solo in un senso puramente negativo, può dirsi stabilita una parità di principio — e una parità, allora, davvero assoluta — fra tali medesime «opere» e fra i rispettivi «stati» sociali, avuti in sorte da ciascuno.
Ciò implica che ogni uomo adempia al ruolo attribuitogli, e rivesta lo «stato» corrispondente, nella più completa indifferenza al genere di essi: nulla deve cioè importargli se si tratti per lui di governare un principato o semplicemente una famiglia, di esercitare questa o quella attività professionale o soltanto un modesto mestiere, e nemmeno egli deve dare alcun rilievo al fatto di essere un libero, titolare di diritti civili, o un servo sottoposto alla mercé di un padrone. Che in realtà tutti i compiti sociali restano configurati — giova ripeterlo — come pure mansioni servili: a nessuno di essi può dunque essere ascritta maggiore o minor dignità che ad altri, appunto perché l'«opera del servo» quali che siano le sue specificazioni particolari, rimane, per definizione, unica e internamente indistinta, essendo suo solo obiettivo quello di garantire la sussistenza materiale. E quale altro scopo, se non quello di conservare materialmente se medesima, può infatti essere attribuito da Lutero alla società «terrena» nel suo complesso? […]
Effettivamente, nessun'altra funzione può essere attribuita da Lutero alla società «terrena» se non quella di conservarsi, di trascinare la sua esistenza fino a quando giungerà per essa il momento di venir «gettata nel fuoco»; e in ciò sta l'unico vero motivo, in ultima analisi, per cui egli vuole che nel mondo continui a esservi un ordine «esteriore» razionalmente costituito, assieme a un'autorità «temporale» capace di garantirlo, poiché – egli dice – «se il mondo deve durare, bisogna che durino la ragione, la saggezza e il diritto». Non a caso egli vede nel potere politico essenzialmente una «Spada», e gli assegna il compito di tener legati gli uomini «proprio come con lacci e con catene si lega una bestia feroce», dal momento che – egli osserva ancora – «se così non si facesse, dato che tutto il mondo è malvagio, e tra mille vi è appena un cristiano, l'uno divorerebbe l'altro, sicché nessuno potrebbe mantenere moglie e figli, nutrire sé stesso e servire Dio, ma il mondo diverrebbe simile a un deserto».
d) Il « servizio di Dio » su questa terra.
Nell'ultimo brano citato or ora figura il concetto di «servizio di Dio» su questa terra, concetto che ricorre sovente in Lutero, e sul quale dobbiamo soffermarci un istante anche per dimostrare che esso non contraddice affatto, e anzi ribadisce, quanto abbiamo osservato fin qui in merito alla complessiva configurazione data dal riformatore sassone alla società umana.
Come appare manifesto, il senso preciso del brano in argomento sta nel porre la conservazione di un qualche ordine sociale in funzione esclusiva della materiale sopravvivenza dei «cristiani» presenti nel mondo, e che in esso sono gli unici servi accetti a Dio. Ma si faccia bene attenzione agli esatti termini adoperati da Lutero. Nell'affermare testualmente che occorre consentire all'«eletto» di «mantenere moglie e figli, nutrire sé stesso e servire Dio», egli accosta, accomuna, identifica un simile «servizio» – riferendosi alla vita terrena del «cristiano» con la medesima operazione naturale che questi non può non compiere in tale vita; operazione colta proprio nel suo obiettivo più materiale, più «necessario», più tipico insomma della figura del servo, quello appunto del nutrimento corporeo.
Su questa terra, dunque, il «servizio di Dio» è inteso dal dottore di Wittemberg in modo tale da non distinguere per nulla il «cristiano» – sempre da un punto di vista terreno, «esteriore» – da tutti gli altri uomini. E ciò, mentre da una parte combacia perfettamente con quanto abbiamo accennato in precedenza circa il «corporale» assoggettarsi del «cristiano» di Lutero alla «Legge» che grava sul mondo e alle relative «opere», conferma poi, d'altra parte, che nessuna eccezione è ammessa dall'ex-agostiniano al carattere servile – nel più proprio significato del termine – da lui compattamente attribuito all'insieme della società, dal momento che anche quel «servizio di Dio» che concerne l'«eletto», lungi dall'implicare compiti particolari e di maggiore eccellenza, non consiste obiettivamente se non nell'adempiere alle stesse, uniformi, «necessarie» mansioni che spettano a ogni uomo sul piano naturale.
L'«eletto», semmai, appartenendo «spiritualmente» a una sfera ben diversa da quella cui pur partecipa «materialmente», sarà più di ogni altro immune dall'ingiustificata tendenza ad attribuire un qualsivoglia valore intrinseco alle «opere» da svolgere in relazione allo «stato» avuto in sorte; sarà del tutto garantito, cioè, da ogni risibile attaccamento soggettivo al proprio specifico ruolo sociale. Dice invero il dottore di Wittemberg che, per colui il quale vive nella fede, «tutte le opere sono uguali [. . .], cosicché cade ogni distinzione fra di esse, siano grandi, piccole, corte, lunghe, numerose o scarse»; che costui «fa tutto ciò che gli viene proposto», poiché «tutto gli è uguale e indifferente». Il «cristiano», insomma, se è caratterizzato da qualche cosa su questa terra, lo è dal fatto di avere raggiunto nel modo più compiuto proprio quell'interiore indifferenza in cui consiste appunto l'atteggiamento che si addice al servo, nella sua totale alienazione, di fronte a qualsiasi particolare compito a lui comandato. In altre parole, l'«eletto», poiché sa di possedere ogni bene nei cieli, può vivere coscientemente fino in fondo la sua alienazione sulla terra; e in essa vede anzi la conferma della sua «libertà» sovrannaturale. Precisamente in questo senso, e cioè come condizione e manifestazione di una simile «libertà», è teorizzato da Lutero il completo distacco del «cristiano» dalle opere che egli deve pur compiere, e nel miglior modo che gli riesce possibile, sul piano della natura.
e) Rovesciamento della collocazione aristotelica dell'«opera del servo».
L'«opera del servo», dunque — venga essa riportata (ma solo per l'«eletto», e unicamente nel segreto di quella vita sovrannaturale che gli è riservata) al «servizio di Dio», o si riduca invece (come accade per tutti gli altri, che vivono solo nella disperata prospettiva della natura) al mero significato di una sottomissione cieca e coatta alla «legge» della collera divina e della condanna —, rimane in ogni caso definita da Lutero, nel più rigoroso ribadimento dei ferrei caratteri di pura necessità» e di assoluto disvalore che le erano stati attribuiti dal pensiero antico, come la vera operazione dell'uomo, come l'unica che sia per lui, in quanto uomo, legittima e a un tempo doverosa.
In ciò è lecito ravvisare la nèmesi storica subita alfine da quel mondo signorile che, non avendo saputo esprimere il lavoro in termini omogenei all'uomo, e avendolo anzi inteso come un elemento di crisi e di contraddizione per l'uomo stesso, lo aveva ridotto appunto alla cupa e alienata figura dell'«opera del servo», nella pretesa di far gravare quest'ultima su una sola parte del genere umano, e di fondare quindi sull'esenzione da essa la «libertà» e il compiuto sviluppo — etico e «dianoetico» — della parte rimanente. Si può ben dire insomma che Lutero, ponendo l'intera società «terrena» sotto l'egida e l'inesorabile disciplina di un lavoro che rimane configurato come alienazione, come condanna, come servitù, segna – in questo senso preciso e decisivo, riguardante la collocazione e l'estensione del lavoro stesso – il rovesciamento di Aristotele, l'estremo naufragio della sua Etica e della sua Politica.
Non è nostro compito analizzare nel dettaglio, con il minuto interesse del sociologo, tutti i particolari riferimenti dell'exagostiniano, rintracciabili qua e là attraverso le sue opere, ai vari aspetti e problemi concreti della società del suo tempo, e tutte le tesi da lui sostenute al riguardo volta per volta. Ci importa invece di sottolineare, con qualche cenno di documentazione, che tali posizioni sono sempre ispirate all'esigenza di affermare il lavoro - l'«opera del servo» – come legge universale e comune sulla terra, e di ridurre sotto questa legge, paritariamente e uniformemente, ogni tipo di attività sociale, condannando qualsiasi privilegiata esenzione dalla norma generale e bloccando qualsiasi tendenza a sfuggirle in un modo o nell'altro.
In effetti, ogni atteggiamento di Lutero nei confronti di aspetti specifici della società «terrena» si diparte dal fermo presupposto che «noi tutti, figli di Adamo, siamo condannati al lavoro, poiché Dio ha detto (Gen., 3, 19): "mangerai il pane col sudore della tua fronte", e ha detto altresì (Giob., 5, 7): "come l'uccello è nato al volo, così l'uomo al lavoro"». Il riformatore sassone ne trae l'immediata e univoca conclusione che nessuno è autorizzato a «ottenere il sostentamento quotidiano senza fatica e senza lavoro, contro il comandamento di Dio», che, al contrario, «ciascuno deve rendersi utile e servire gli altri con la sua attività e con il suo mestiere», e che «ciascuno deve attendere al proprio ufficio, come tutte le creature attendono all'opera loro».
Una simile conclusione è sostenuta dall'ex-agostiniano nei riguardi di chiunque, appunto perché, come si è veduto or ora, tutti gli uomini sono per lui assolutamente uguali di fronte all'obbligo – alla condanna – del lavoro: il contadino come il principe, l'ultimo laico come il più alto dignitario ecclesiastico.
Ogni uomo – egli afferma e ripete insistentemente – ha il suo ruolo preciso da svolgere nella società; questo ruolo sta appunto nel suo lavoro, e quindi esso deve venire adempiuto e vissuto essenzialmente come lavoro, distinguibile per specificazioni obiettive, ma non per particolari gradi di dignità e di importanza.
(da Vittorio Tranquilli, Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1979, pp. 334-341)