La concezione del lavoro del mondo cattolico dopo il concilio di Trento: la pastorale di San Carlo Borromeo
Comunque si voglia giudicare la personalità complessa di Carlo Borromeo e il fervido periodo del suo arcivescovado milanese (1560-1584), è fuori discussione che in lui si possono individuare alcune caratteristiche tipiche ed esemplari di un vescovo della Controriforma. Da questo punto di vista è significativo vedere come la sua preoccupazione per la difesa della sana dottrina cattolica, rigidamente contrapposta alle novità ereticali del mondo protestante, pervada anche le indicazioni pastorali relative all'apprendimento e all'esercizio della mercatura. Se, a titolo prudenziale, nel concilio provinciale I (1565) si proibisce di avere consuetudine e di dimorare nei paesi passati all'eresia, anche nel caso si trattasse di impararvi un mestiere o di esercitarvi il commercio, il concilio provinciale VI (1582) ribadisce che nessuno poteva mandare i propri figli nei paesi abitati dagli eretici, allo scopo di apprendervi l'arte del commercio, prima che avessero compiuto il venticinquesimo anno di età. Ma al di là di questa attenzione specifica ad evitare qualsiasi contaminazione di dottrina e di costumi, che poteva essere indotta anche dalle frequentazioni dovute a ragioni economiche, l'insistenza tipicamente carolina sulla necessità della formazione dottrinale del cristiano riemerge veemente nella terza parte dei Ricordi, tutta dedicata a «li mastri, et capi di botteghe, et loro ministri, et garzoni». Se ne ricava che, per san Carlo, non poteva essere «buon lavoratore» se non il buon cristiano (e viceversa). Insomma: tra le preoccupazioni principali di san Carlo pastore c'era pure questa: i lavoratori dovevano essere resi anche uomini istruiti nelle verità fondamentali della fede, partecipi della vita religiosa comunitaria e animati da sincero fervore.
Ciò, che più sorprende, leggendo i Ricordi, è la visione cristiana totalizzante del Borromeo. La bottega, l'opificio o «lavorerio», per esprimerci con le sue parole, non sono affatto un luogo profano, ma uno spazio in cui la società cristiana, organizzata nelle sue corporazioni di mestiere, sotto la guida autorevole di un capo laico (maestro o padrone che sia), eleva il proprio culto a Dio, tramite il lavoro, in un clima di rispetto e onore reciproco, anzi di vera e propria fraternità, secondo la logica del Vangelo e dell'onestà morale. La cornice che conferisce senso all'attività lavorativa — entro il ritmo del giorno, ma anche in quello più ampio dell'intero anno liturgico, insomma entro le scansioni cultuali diversificate della comunità tutta — è quella della preghiera, regolarmente praticata in apertura e in chiusura del lavoro. La comunità cristiana, nel suo insieme, sembra lavorare secondo il modello e lo stile di una comunità monastica. Il Borromeo, più che tanti altri autori spirituali di questo periodo, presuppone esplicitamente, assume e valorizza la struttura corporativa che rappresenta l'impianto moderno del lavoro socialmente organizzato. Si direbbe che, nella mente del riformatore, l'organizzazione corporativa del lavoro faccia da pendant perfetto alla struttura delle confraternite religiose, di vario tipo, e che converga con queste alla realizzazione di un unico fine: la «gloria di Dio» ovvero la salvezza dell'uomo. Dunque, vissuto in modo ecclesiale, il lavoro è concepito come l'opera, insieme individuale e collettiva, attraverso la quale i fedeli cristiani diventano meritoriamente partecipi della propria salvezza, offerta loro da Cristo tramite l'azione sacramentale della Chiesa: una tematica che si inquadra bene nella «teologia del merito» riproposta dal concilio di Trento, contro le negazioni dei protestanti.
(da Franco Buzzi, Il lavoro tra XVI e XVII secolo, in a cura di Danilo Zardin, Corpi, “fraternità”, mestieri nella storia della società europea, Bulzoni, 1998, pp. 176-178)