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La difficoltà della vita quotidiana nel cinquecento

Nella prima età moderna l'Europa era un mondo in evoluzione; l'ordine apparentemente immutabile del passato, in cui gli uomini erano vissuti nel quadro di una cristianità unita, di una comunità ben salda e di ruoli sociali universalmente accettati, stava crollando. In realtà anche il mondo tardomedievale era stato tutt’altro che statico, mercanti, pellegrini e artigiani avevano percorso in lungo e in largo il continente e gli esploratori si erano spinti in Africa e in Asia in cerca di ricchezza. Ma solo nel Cinquecento gli uomini cominciarono a prendere coscienza delle profonde innovazioni sopravvenute nel loro modo di vivere. […] Uno degli aspetti di questo mutamento su cui i contemporanei insistettero di più, fu la crescita demografica.

Movimenti di popolazione
Si direbbe che gli effetti dell'espansione demografica che caratterizzò il primo Cinquecento siano stati esagerati da chi ne fu testimone. Già nel 1518 Ulrich von Hutten affermava che «i viveri scarseggiano e la Germania è sovraffollata»; nello stesso anno una commissione di frati gerolamini spagnoli suggeriva di mandare «la popolazione eccedente di questi regni a colonizzare l'America». […]
Esagerazioni a parte, va tenuto presente che a quel tempo la mobilità geografica era maggiore di quanto non fosse mai stata in precedenza e che forse fu l'entità di questi spostamenti, diretti soprattutto verso le città, a dare l'impressione di un'enorme espansione demografica. Naturalmente in molte popolazioni rurali non vi fu una mobilità apprezzabile: là dove la maggior parte dei contadini possedevano un pezzo di terra o erano vincolati da obblighi feudali o dall'autorità del signore, era assai improbabile che si spostassero, e in altri casi l'emigrazione poteva essere impedita da ragioni geografiche, come l'isolamento di certe zone di montagna o la presenza di un ambiente abbastanza fertile da assicurare l'autosufficienza. Numerose testimonianze mostrano peraltro che nel periodo in esame la mobilità geografica nelle campagne fu maggiore di quanto non si sia ritenuto finora. […]
Per lo più questi spostamenti non avvenivano su grandi distanze. […] Naturalmente il ricambio della popolazione era più intenso nei grandi centri urbani. […]
Pertanto, se è vero che in molti piccoli centri e in molte zone rurali la popolazione europea continuò a essere sedentaria, è ampiamente documentato che nella maggior parte delle comunità vi fu di norma un'elevata mobilità geografica, dovuta a tre esigenze primarie: la ricerca di un coniuge, la ricerca di un'occupazione e l'evasione da una situazione di miseria.
La necessità di cercarsi un coniuge fuori del proprio villaggio nasceva dal fatto che nelle piccole comunità la percentuale di consanguinei era spesso elevata, mentre il diritto canonico proibiva i matrimoni tra consanguinei fino al quarto grado. In pratica quest'impedimento non doveva essere insuperabile, visto che nel Seicento circa un decimo dei matrimoni celebrati nel villaggio spagnolo di Pedralba (Valenza) ricadevano tra quelli colpiti dal divieto; ma normalmente i giovani e le ragazze abitanti nei piccoli insediamenti erano costretti da queste restrizioni a cercarsi una moglie o un marito nei villaggi vicini, per lo più in occasioni di festività religiose o connesse con il raccolto. Quest'usanza provocava talvolta conflitti tra un villaggio e l'altro, perché i giovani cercavano di difendere le compaesane dagli approcci dei forestieri, esercitando pressioni sulle ragazze e sulle loro famiglie o chiedendo la dispensa ecclesiastica per poter sposare una consanguinea. Le coazioni comunitarie di questo tipo avevano come conseguenza un alto livello di endogamia, commisurato in generale alle dimensioni del villaggio: ad esempio nella Champagne del Seicento, mentre a Rouvray (216 abitanti) i matrimoni endogamici erano il 31 per cento, a Mussey (511 abitanti) erano il 68 per cento, presumibilmente a causa della maggiore possibilità di scelta. Nelle campagne l'esogamia era sempre più elevata che nelle città: in un borgo rurale come Altopascio, nella seconda metà del XVII secolo su 100 matrimoni ve n'erano circa 60 in cui uno dei coniugi proveniva da fuori. Per lo più l'estraneo era il marito, il che fa ritenere che la mobilità per ragioni matrimoniali riguardasse prevalentemente gli uomini, tranne 1à dove vigeva contro di loro un'esplicita discriminazione.
La maggior parte del flusso migratorio consisteva di spostamenti a breve distanza tra una comunità rurale e l'altra o tra campagna e città; l'ambiente urbano rappresentò sempre il maggior polo d'attrazione, in quanto offriva tutte quelle possibilità - libertà, successo, matrimonio, lavoro - che erano scarsamente disponibili altrove. L'emigrazione verso le città - che in questo periodo, come già si è accennato, conobbero un generale sviluppo demografico - riguardò persone di ogni ceto: una testimonianza proveniente dal Dorset, secondo cui «alcuni nostri mercanti e uomini facoltosi sono emigrati» fa pensare che costoro siano stati attirati dalle possibilità di commercio offerte da Londra. […] Ai diseredati provenienti dalle campagne le strade cittadine apparivano lastricate d'oro. Nei periodi di crisi l'afflusso verso i centri urbani diventava un'inondazione: nel 1667 gli abitanti dei villaggi della provincia di Palencia (Spagna) dichiararono che le loro comunità avevano perduto nel quarantennio precedente i nove decimi della popolazione, perché «intere famiglie e singole persone si erano trasferite in città come Valladolid, Rioseco, Palencia e altri grossi centri vicini, abbandonando le loro case e le loro terre per mancanza di capitali».
La mobilità a grande distanza era dovuta in primo luogo alla ricerca di un lavoro. Per alcuni mestieri questa mobilità era la regola, e ad esempio in Francia gli apprendisti erano stimolati a far tirocinio in varie città: un cordovaniere del Cinquecento, Jean de la Mothe, lasciò la sua città natale di Tours a 16 anni e approdò quattro anni dopo a Digione, dopo aver fatto esperienza di lavoro in 13 luoghi diversi. Di norma gli emigranti di un certo livello e con una specializzazione molto richiesta non avevano bisogno di spostarsi a grande distanza, mentre i lavoratori di livello inferiore e meno qualificati si trasferivano in maggior numero e dovevano andare più lontano. La differenza è evidente a Francoforte, dove nel XV secolo i tre quarti degli immigrati a cui era stata concessa la cittadinanza provenivano da località situate entro un raggio di 75 chilometri, mentre il 56 per cento dei fabbri venuti a lavorare o a far tirocinio erano originari di località distanti più di 150 chilometri. […] In alcune zone d'Europa una percentuale molto elevata di migranti era costituita da lavoratori stagionali; tuttavia la reale entità del fenomeno può essere stata amplificata dal fatto che i dati disponibili per tali zone riguardano il XVII secolo, e cioè un periodo di crisi agricola. L'esempio più noto è quello dei contadini spagnoli della Galizia, che per l'insufficienza dei loro possessi fondiari emigravano regolarmente in Castiglia e in Andalusia in cerca di un lavoro aggiuntivo, tornando in patria solo al tempo del raccolto; analogamente, migliaia di lavoratori rurali francesi valicavano ogni estate i Pirenei per collaborare ai raccolti in Spagna. A quanto pare questi lavoratori stagionali non erano scoraggiati dalle distanze: dai registri dell'ospizio di Montpellier risulta che nel 1696-99 centinaia di braccianti in cerca di un salario arrivarono fin dalle lontane regioni della Francia settentrionale.
Infine, un incentivo costante alla migrazione fu la povertà. Migliaia di giovani abbandonarono le aree rurali depresse e andarono lontano a servire negli eserciti: si valuta che alla guerra dei Trent'anni abbiano partecipato 8000 scozzesi, e nel Cinquecento circa 9000 spagnoli l'anno partirono per andare a combattere oltremare. L'inflazione, la recinzione dei campi aperti e l'aumento degli affitti scacciarono i lavoratori rurali dai loro villaggi, mentre i gravami fiscali e i saccheggi dovuti alla guerra costringevano molti a cercarsi una nuova vita altrove; in tutti i paesi d'Europa si formarono così masse di migranti poveri e di vagabondi.

L'emigrazione oltremare
Nel Cinquecento ebbero inizio i tentativi degli europei di estendere le loro frontiere verso regioni ancora inesplorate del globo. A Est i russi si spinsero senza difficoltà oltre gli Urali, ma la loro avanzata in Siberia non implicò un movimento di popolazione notevole: ancora nel 1650 le loro basi siberiane non contavano più di 10000 abitanti, la maggior parte dei quali non erano neppure coloni, ma mercenari o cosacchi al servizio dello zar. Eroe e pioniere della frontiera orientale fu Ermak, il famoso predone divenuto mercenario, che invase la Siberia nel 1582 e vi trovò la morte due anni dopo; nei decenni seguenti non vi furono altri eroi, ma solo l’inesorabile avanzata dei distaccamenti di truppe e dei mercanti di pellicce. Possibilità ancora minori erano offerte dalla frontiera meridionale dell'Europa, giacché tutto il Mediterraneo sud-orientale era in mano a potenze musulmane. Come Ermak, e quasi contemporaneamente a lui, il re Sebastiano del Portogallo morì in un tentativo di ampliare i confini europei: nel 1578 il giovane sovrano invase il Marocco alla testa del suo esercito, ma fu sopraffatto dalle forze moresche nella battaglia di Alcázarquivir. L'ambizioso progetto di estendere il dominio cristiano all’Africa avviato dal cardinal Cisneros con la conquista di Orano (1509) e ripreso più tardi da Carlo V, fu infine abbandonato. Anche verso il lontano Oriente vi erano pochissime possibilità d'espansione: le distanze erano scoraggianti e la presenza di civiltà progredite come quella araba o quelle dell'India e dell'Asia orientale costituiva un ostacolo troppo temibile.
Nuove terre scarsamente popolate erano invece disponibili a Occidente: «Perché mai dovremmo continuare a lottare per trovare qui spazio in cui insediarci», si chiedeva nel 1629 il futuro governatore del Massachusetts John Winthrop, «lasciando un intero continente [l'America] inutilizzato e senza migliorie?». L'occupazione europea del Nuovo Mondo ebbe inizio all’alba del XVI secolo con la graduale avanzata degli spagnoli. Da principio l'insediamento fu in pratica limitato alle Indie Occidentali e in particolare all'isola di Hispaniola (Haiti), dove sorse la prima città americana, Santo Domingo; a causa dei pericoli e dell'elevata mortalità il numero dei coloni rimase piuttosto esiguo (circa mille nel 1499). Nel primo decennio del Cinquecento la colonizzazione si estese alle principali isole e ad alcuni insediamenti in terraferma, procedendo con estrema lentezza, così che tra lo sbarco di Colombo e la conquista di Città di Messico per opera di Cortés passarono quasi trent'anni, l'arco di un'intera generazione; al termine di questo periodo gli spagnoli avevano però compiuto due imprese decisive come la circumnavigazione del globo (1519-22) e l'abbattimento dell'impero azteco (1519-21).
Con questi eventi si aprì una nuova fase dell'espansione spagnola, in cui anche ai coloni più umili si offriva la possibilità di enormi guadagni. La maggior parte dei conquistadores erano di bassissima estrazione sociale: Cortés era figlio di un «povero e modesto» capitano di fanteria, Pizarro era stato guardiano di porci, Valdivia e Alvarado ignoravano addirittura dove fossero nati. Eppure molti di essi trovarono in America gloria e ricchezza: ad esempio Cortés fu creato marchese (1529) e gli fu concesso nel Messico un immenso territorio con una ventina di città e villaggi e con circa 23.000 sudditi indigeni. Quest'ultimo fatto mette in evidenza come nella «frontiera» spagnola in America si siano ben presto riprodotti, contro le iniziali speranze di libertà, i modelli sociali restrittivi tipici della madrepatria. Non era certamente questo il desiderio dei primissimi colonizzatori, che erano in gran parte piccoli artigiani - calzolai, fabbri, armaioli, cuochi, muratori, stuccatori - in cerca di nuove opportunità in un ambiente libero: non per nulla il governatore del Paraguay chiese che fosse vietata l'immigrazione degli uomini di legge, «perché nelle terre di nuovo insediamento fanno nascere liti e dissensi tra i coloni», e nel Messico, secondo quanto riferisce Bernal Díaz, gli immigrati supplicarono il re «di non lasciar venire in questo paese dotti e letterati, che ci getterebbero nella confusione con il loro sapere, i loro libri e i loro cavilli». Ma la facilità stessa con cui si diventava ricchi ostacolò la formazione di una società democratica: anziché stimolare la mobilità sociale, la ricchezza fece dei colonizzatori bianchi una classe agiata dedita allo sfruttamento dei nativi. Man mano che si diffondevano notizie di favolosi tesori, i coloni si spingevano nella terraferma: «Gli uomini avidi di avventure che partono per le Indie», notava lo storico Fernández de Oviedo, «sono per lo più scapoli e quindi non si sentono legati a una residenza fissa; poiché ogni giorno si scoprono nuove terre, pensano di poter riempire il sacco più rapidamente in un'altra regione». Una categoria di colonizzatori con una mobilità cosi elevata aveva bisogno di una riserva sicura di manodopera per coltivare la terra e nutrire la popolazione, e la trovò negli indiani e più tardi nei negri. «Nelle Indie» riferiva un magistrato di Hispaniola nel 1550, «gli spagnoli non lavorano, e ogni nuovo arrivato diventa immediatamente un gentiluomo». Senza dubbio l'America offrì nuove possibilità di vita ai diseredati provenienti dalla madrepatria, ma con la contropartita di un riprodursi delle disuguaglianze strutturali tipiche della società europea; il tentativo di discostarsi da tale modello e di creare una nuova società su basi utopistiche poteva ritenersi fallito intorno alla metà del Cinquecento, quando si erano trasferiti in America circa 150.000 spagnoli.
L'emigrazione dall'Inghilterra verso Occidente ebbe come prima meta l'Irlanda, dove il saccheggio da parte dei soldati e dei coloni inglesi provocò il diffuso spopolamento osservato da sir William Petty. Nell'America settentrionale, invece, i nuovi arrivati gettarono le basi di una società molto diversa da quella colonialista dell'Irlanda e dell'America spagnola. Nella Nuova Inghilterra la caratteristica socialmente rilevante degli immigrati non era la fede religiosa, ma la posizione economica: si trattava per la maggior parte di piccoli agricoltori indipendenti e di piccoli artigiani e commercianti, che a differenza degli spagnoli erano disposti, in mancanza di una manodopera facilmente reperibile, a coltivare essi stessi le loro terre e a vendere i loro prodotti. Fin dall'inizio la comunità autosufficiente da essi formata si avvicinò molto a una società monoclasse, priva sia di uno strato superiore di nobili o di proprietari terrieri, sia di uno strato inferiore di lavoratori poveri. Nei primi tempi vi furono parecchie eccezioni a questo modello, specialmente nella Virginia e nei possedimenti della Corona, ma la tendenza prevalente, anche nelle colonie date in concessione a privati, fu una combinazione di democrazia sociale e di oligarchia politica. La maggiore attrattiva non era quindi la conquista di grandi ricchezze, giacché il benessere poteva essere raggiunto solo attraverso un'assidua attività agricola, artigiana o commerciale, bensì il superamento delle barriere sociali della Vecchia Inghilterra.
La libertà cercata dagli emigranti era una libertà integrale. […] Non tutti però emigravano verso questa terra promessa per volontà propria: fin dai primi tempi vi fu l'usanza (non condivisa dagli spagnoli) di trasferire nei nuovi territori alcuni condannati, anche se il numero dei veri e propri criminali inviati in America fine al 1640 non arrivava a 180. Tra gli emigranti forzati vi erano anche orfani, vagabondi, donne di facili costumi e disoccupati: in tal modo, si disse non senza ragione, «a molte persone di buone capacità, fornite di doti singolari e svariate […] ma che non possono più vivere in Inghilterra, viene offerta l'opportunità di risollevarsi». Non a caso nel 1624 il comandante John Smith, esploratore e fautore della colonizzazione, definiva l'America «il miglior paese del mondo per chi è povero». Sebbene quest'ottimismo fosse in gran parte infondato e non tutte le colonie fossero come il Massachusetts del Seicento, dove la povertà era pressoché sconosciuta, gli aspetti positivi dell'esperienza americana erano indubbi: la liberazione dalle strutture feudali europee, dalle convenzioni di classe, dalle barriere economiche e dall'oppressione religiosa apriva nuovi orizzonti e contribuiva a cambiare anche il vecchio continente. […]

Il costo della vita
Dalla fine del Quattrocento in poi, i rapporti sociali in Europa furono influenzati da un nuovo fenomeno che riguardava tutte le classi e accelerava i mutamenti: l'aumento del costo della vita. […]
Quasi tutti i beni di normale consumo subirono nel corso del XVI secolo un notevole rincaro. Tra il 1500 e il 1600 il prezzo del grano, principale alimento della grande maggioranza della popolazione, crebbe del 425 per cento in Inghilterra, del 318 per cento nelle Province Unite, del 651 per cento in Francia, del 271 per cento in Austria, del 376 per cento in Castiglia e del 403 per cento in Polonia. In generale, come vedremo, gli aumenti di prezzo dei manufatti furono minori, ma anche se si tiene conto di ciò e si costruisce un indice generale del costo della vita, il quadro d'insieme non cambia: l'indice calcolato da Phelps Brown e Hopkins per l'Inghilterra meridionale mostra che tra i1 1450 e il1700 il costo della vita aumentò di oltre sette volte.
Alcuni autori si sono chiesti se sia appropriato parlare di una «rivoluzione dei prezzi». Ad esempio, l'esame del suddetto indice mostra che il tasso annuo d'incremento dei prezzi in Inghilterra tra il 1532 e il 1660 fu in media dello 0,86 per cento, e che anche nel periodo di maggior inflazione del regno dei Tudor, fra il 1532 e il 1580, non superò l'1,5 per cento. Questi valori, che appaiono irrisori di fronte a quelli a due cifre dei tassi d'inflazione moderni, inducono a dubitare che l'aumento dei prezzi nel XVI secolo sia stato davvero così sconvolgente e che si possa parlare, ad esempio, di una «rivoluzione dei prezzi» a Firenze, dove tra il 1552 e il 1600 il tasso annuo medio d'inflazione arrivò appena al 2 per cento. Appare tuttavia ragionevole continuare a usare questo termine, purché si facciano alcune precisazioni. In primo luogo, l'aumento dei prezzi fu diverso nei vari periodi, mantenendosi molto più graduale negli ultimi decenni del XV secolo e nella prima metà del XVI e impennandosi solo tra la metà del XVI secolo e gli inizi del XVII: la vera e propria «rivoluzione» sarebbe avvenuta cioè nel tardo Cinquecento (è possibile però dimostrare - come è stato fatto per la Spagna - che in termini di rapporti tra i prezzi il tasso d'inflazione fu più elevato nella prima metà del secolo). La seconda precisazione da fare è che si trattò di un rincaro senza precedenti: fu questo che colpì soprattutto i contemporanei, inducendo gli storici a parlare di «rivoluzione». In un'economia poco articolata come quella del XVI secolo era più difficile adattarsi ai mutamenti economici: se il prezzo del pane raddoppiava la gente soffriva la fame, mentre oggi può ricorrere ad alimenti alternativi, per esempio
alle patate. Infine, non è possibile continuare a trattare il fenomeno solo in termini di prezzi, ma occorre tener conto di altri fattori, come i salari e gli affitti, che influirono in misura altrettanto notevole sul tenore di vita.

Le cause dell'aumento dei prezzi
Un'insufficiente conoscenza della natura dell'inflazione portò i contemporanei ad attribuirla in primo luogo all'avidità umana. Nel 1548 le Cortes di Castiglia affermavano the erano stati «gli ingenti acquisti di lana, seta, ferro, acciaio e altre merci e vettovaglie da parte degli stranieri» a far salire negli ultimi tempi il livello dei prezzi; e tre anni dopo ribadivano che la causa principale del rincaro erano
«le speculazioni compiute dagli stranieri su ogni specie di derrate». Nel 1568 Bodin riteneva che l'inflazione e la carestia che affliggevano la Francia fossero dovute in gran parte a interessi monopolistici nel commercio dei generi alimentari e di altri beni; e già nel 1549 l'autore di un opuscolo inglese era arrivato alla conclusione che l'ascesa dei prezzi era causata soprattutto dall'accaparramento di merci da parte di un ristretto numero di persone».
In un certo senso queste accuse erano vere, essendo innegabile che in un periodo di crisi come quello in esame vi fossero speculatori e incettatori; ma si trattava di un sintomo e non di una causa, perché a loro volta gli speculatori cercavano di difendersi dall'instabilità finanziaria prodotta dallo svilimento della moneta. Tra 1543 e il 1551 il contenuto d'argento delle coniazioni inglesi diminuì di oltre due terzi e il potere d'acquisto dei lavoratori salariati si ridusse notevolmente; gli strati più poveri, che vivevano essenzialmente di denaro spicciolo, si accorsero che esso aveva perduto gran parte del suo valore, mentre artigiani e commercianti aumentarono i prezzi per ricuperare le perdite. Solo dopo il 1560 Elisabetta provvide a stabilizzare la moneta e a proteggerla dagli speculatori stranieri; ed è notevole il fatto che dopo quella data l'Inghilterra fu l'unica grande nazione europea ad avere una valuta stabile, mentre tutti gli altri Stati - dalla Francia alla Spagna, alla Russia e alla Polonia - furono più o meno soggetti all'inflazione conseguente alla diminuzione del contenuto d'argento delle monete. In Spagna questa diminuzione si mantenne entro limiti ristretti al tempo di Carlo V e di Filippo II, ma sotto Filippo III il governo ricorse a uno svilimento su larga scala e il metallo nobile scomparve per la prima volta dalle monete; provvedimenti analoghi furono presi in altri Stati, come in Polonia, dove tra il 1578 e il 1650 il contenuto d'argento del grosz fu ridotto di due terzi.
Si potrebbe pensare che siano state queste svalutazioni a determinare l'ascesa dei prezzi. Mentre però in Inghilterra e in Francia le difficoltà monetarie si possono far risalire almeno alla prima metà del Cinquecento, in Spagna e in Polonia la moneta rimase per lo più stabile fin verso la fine del secolo: e poiché in tutti questi paesi vi fu un continuo aumento dei prezzi, è evidente che esso può essere attribuito solo in parte alle riconiazioni di quel periodo. Questa constatazione colpì particolarmente Bodin: nel suo Discours…. et Response aux Paradoxes de M. de Malestroict (1568), scritto in polemica con un autore che negava addirittura l'esistenza di un aumento dei prezzi, il grande teorico della politica faceva notare come fosse errato mettere in relazione il loro livello solo con il contenuto d'oro o d'argento delle monete.
Secondo Bodin «la causa principale e quasi esclusiva [del rincaro], causa che nessuno finora ha indicato» era l'abbondanza dell'oro e dell'argento provenienti dall'America: una tesi, questa, che era destinata a diventare la spiegazione classica della rivoluzione dei prezzi, e che già era stata enunciata da alcuni autori spagnoli. […] Ma l'autore a cui si è si soliti attribuire la formulazione e la diffusione di questa tesi rimane Bodin, le cui idee furono riprese e riecheggiate in Francia dai contemporanei e furono studiate e divulgate in Spagna da Sancho de Moncada. Più tardi in Inghilterra anche lo Smith nel Discourse of the Common Weal (1581) mise in risalto l'importanza della «gran massa e abbondanza di ricchezza che circola nel nostro paese, oggi molto più che in qualsiasi età passata: chi ignora infatti l'enorme quantità d'oro e d'argento raccolte nelle India e in altri paesi e trasportate ogni anno nelle nostre isole?»; e un grande mercante, Gerard Malynes, affermò nel 1601 che «la gran massa di denaro e di metalli preziosi giunta in questi ultimi anni nella Cristianità dalle Indie occidentali ha reso tutto più costoso».
Negli anni intorno al 1930 la tesi della correlazione tra l'arrivo dei metalli preziosi dall'America e l'aumento dei prezzi in Europa è stata sostenuta decisamente, in base a un'imponente mole di dati, da Earl J. Hamilton nei suoi studi sull'importazione dell'argento in Spagna. Sarebbero stati i metalli preziosi affluiti in questo paese e in tutt'Europa ad accrescere la circolazione monetaria e a spingere in alto i prezzi; analogamente, gli aumenti dei prezzi avvenuti prima della scoperta delle miniere americane sarebbero da attribuire all'accresciuta produzione d'argento nell'Europa centrale. Molti storici sono stati più restii ad accettare integralmente questa spiegazione, in base al fatto che in alcuni paesi i prezzi cominciarono a salire parecchio tempo prima dell'arrivo dell'argento americano; ciò significa che l'inflazione non fu dovuta solo a questa causa, così come non fu - lo abbiamo già visto - una conseguenza automatica dello svilimento della moneta. In effetti in Germania e in alcune regioni della Francia il rincaro era già in atto poco dopo il 1470; sebbene nella prima metà del Cinquecento siano state importate in Inghilterra quantità trascurabili di metalli preziosi, nel 1550 il livello dei prezzi era più che raddoppiato (l'indice di Phelps Brown e Hopkins risulta uguale a 103 per il 1510 e a 262 per il 1550); e anche in Italia, dove i metalli preziosi occorrenti per finanziare le truppe spagnole cominciarono ad arrivare in misura notevole solo dopo il 1570, la curva dei prezzi era nettamente in ascesa fin dagli anni Trenta.
Perfino nel caso della Spagna, principale importatrice dei tesori del Nuovo Mondo, sorgono dei dubbi sulle affermazioni di Hamilton secondo cui «la causa primaria della rivoluzione dei prezzi in Spagna fu certamente la ricchezza delle miniere americane». A questo proposito, fermo restando che l'arrivo di metalli preziosi ebbe un effetto stimolante diretto sull'economia della penisola iberica, è necessario mettere in evidenza tre punti. Innanzi tutto, nonostante l'ottimo lavoro di ricerca svolto da Hamilton, i suoi dati sulle importazioni d'oro e d'argento sono spesso incompleti, a causa della notevole incidenza del contrabbando, per il periodo che va fino ai primi decenni del Seicento e sono assai poco attendibili per il periodo successivo al 1630. In secondo luogo, buona parte - se non addirittura la maggior parte dei metalli preziosi entrati in Spagna non vi rimase a lungo, ma finì ben presto nelle mani dei mercanti stranieri; può darsi quindi che la massa metallica effettivamente circolante nel paese sia stata esigua e abbia avuto solo un modesto influsso sui prezzi. […] Se infine si tiene conto del fatto che anche in Spagna i prezzi erano già in ascesa (specialmente nel Sud, in seguito all'inflazione provocata dalle guerre di Granata) prima che cominciasse l'importazione di metalli preziosi, si può concludere che l'arrivo dell'argento americano fu solo una delle molte cause del fenomeno in questione.
La tesi che mette in rapporto l'inflazione con l'afflusso di metalli preziosi è fondata sulla teoria quantitativa della moneta, secondo cui, se la domanda e la velocità di circolazione sono stabili, il livello dei prezzi è direttamente proporzionale alla quantità di moneta disponibile: ogni aumento di tale quantità (per accresciuta coniazione, per importazioni d'argento, ecc.) produrrà un rialzo dei prezzi. Certamente ciò avvenne nel Cinquecento, ma è interessante osservare che non tutti i prezzi crebbero nella stessa misura: ad esempio in Inghilterra nella prima metà del secolo i prezzi dei cereali risultarono più che triplicati, mentre quelli dei prodotti non agricoli raddoppiarono soltanto. Ciò significa che la domanda di generi alimentari aumentò più rapidamente di quella dei manufatti e che cambiarono i rapporti tra le quantità di prodotti agricoli e non agricoli: bisogna allora concludere che anche la domanda da parte dei consumatori e la produzione di merci ebbero un ruolo importante nel modificare i livelli dei prezzi.
L'accresciuta domanda di beni di consumo fu una conseguenza dell'incremento demografico che fin dagli ultimi decenni del Quattrocento aveva cominciato a stimolare 1'economia europea, col risultato di accelerare gli investimenti: pertanto l'assorbimento dell'oro e dell'argento americani fu in un certo senso, più che una causa, un effetto dell'inflazione Il valore dei terreni subì un costante e diffuso aumento, indicativo di un intenso bisogno di terra da parte dell'accresciuta popolazione, e la maggiore disponibilità di manodopera portò a una notevole diminuzione dei salari reali. Una prova decisiva dell'influsso diretto che dell'incremento demografico ebbe sul costo della vita e data dal diverso andamento dei prezzi relativi ai prodotti agricoli e agli altri prodotti. In Spagna per tutto il periodo tra il 1500 e il 1575 circa il rincaro dei prodotti agricoli fu alquanto pin rapido di quello dei manufatti; lo stesso accadde in altri paesi […] Evidentemente si trattava di un'inflazione selettiva, che incideva maggiormente sui beni di consumo essenziali, più richiesti da una popolazione in espansione e per i quali la domanda cresceva più rapidamente della produzione: ciò spiega perché i prezzi abbiano cominciato a salire già prima dell'arrivo dei metalli preziosi dall'America. Dai dati esposti risulta inoltre che la domanda dei prodotti industriali non di prima necessità non si sviluppò con lo stesso ritmo, anche se la loro produzione continuò ad aumentare.

Redditi e aumento dei prezzi
In un'economia meno flessibile di quella odierna e in cui larghi strati delle varie classi sociali vivevano di redditi tradizionalmente fissi, un'inflazione anche del 2 per cento annuo poteva avere effetti disastrosi: «In passato», scriveva nel 1581 il già citato Smith, «era considerato ricco chi guadagnava 30 a 40 sterline [l’anno], ma oggi chi ha un reddito simile e visto quasi come un mendicante». […] In ogni paese d'Europa la classe lavoratrice fu dunque gravemente colpita in tutti i suoi settori.
Naturalmente l'analisi dei salari non basta da sola a fornire un quadro completo della situazione. Dai libri dei conti del capitolo di Notre-Dame ad Anversa risulta che nel Cinquecento anche gli operai regolarmente occupati restavano senza lavoro, e quindi senza paga, per circa due mesi l'anno, con una conseguente diminuzione del salario medio effettivo rispetto a quello nominale. D'altro lato, alcuni lavoratori ricevevano solo una piccola parte della retribuzione in denaro e per il resto erano compensati in natura, di solito con uno o due pasti al giorno, così che il loro livello di vita dipendeva meno dal valore della moneta. Questa categoria comprendeva molti lavoratori urbani non qualificati e in alcune regioni d'Europa costituiva la stragrande maggioranza dei lavoratori rurali: ad esempio, i servi della gleba spesso erano rimunerati interamente in natura. I problemi sociali del Cinquecento vanno dunque visti, più che in termini puramente salariali, in termini di affitti, di prezzi e di debiti, che incidevano sia sull'artigiano qualificato, sia sul salariato comune: ben pochi lavoratori vivevano esclusivamente del salario in denaro e alcuni di essi, compensati in natura ed eventualmente favoriti dal blocco dei fitti, riuscivano addirittura a difendersi dall'inflazione.
Ciò non toglie che nel complesso le classi inferiori siano state gravemente colpite dalla rivoluzione dei prezzi. Un indizio significativo dell'accresciuta povertà fu la graduale scomparsa della carne dalla dieta dei lavoratori: in Sicilia il consumo annuo individuale di carne nelle zone rurali scese da 16-22 chilogrammi nel XV secolo a 2-10 chilogrammi nel 1594-96, e da una testimonianza del 1550 riguardante la Svevia risulta che «un tempo nelle famiglie dei contadini si mangiava diversamente e ogni giorno c'erano carne e altri cibi in abbondanza     ma oggi tutto è profondamente cambiato».

Terra e rivoluzione dei prezzi
La vera unità di misura della ricchezza in Europa non era costituita dall'oro e dall'argento, ma dalla terra; e furono soprattutto i mutamenti nel prezzo e nell'uso del suolo a rendere memorabile l'inflazione. I suoi effetti sui contadini e sulla produzione agricola saranno esaminati in seguito; per quanto riguarda ì proprietari e i conduttori di terre, alcuni di essi vennero danneggiati e altri favoriti. Nella prima redazione del Discourse, scritta nel 1549, sir Thomas Smith afferma che fra coloro che traevano profitto dal mutamento vi erano «tutti gli affittuari che continuano a pagare un basso canone per la terra, mentre vendono a caro prezzo i prodotti che ne ricavano». Svantaggiati erano invece «tutti i nobili e i gentiluomini che vivono di rendite o affitti costanti, senza coltivare la terra e senza dedicarsi a comprare e vendere»; in seguito a tale diminuzione dei redditi tradizionali «i gentiluomini si studiano di migliorare i cespiti delle loro terre, aumentando i canoni e occupandosi essi stessi delle fattorie e dei pascoli».
(Henry. Kamen, L’Europa dal 1500 al 1700, Laterza, 2000)

 

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