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La colonizzazione spagnola del Nuovo Mondo

Con l'organizzazione dell'impero coloniale spagnolo si assiste al sorgere nel Nuovo Mondo di alcuni particolari istituti che cercano di risolvere ad un tempo il problema della manodopera per lo sfruttamento delle colonie e quello religioso della diffusione della fede cristiana.
Aveva cominciato lo stesso Colombo imponendo nel 1497-1499 agli indios di Hispaniola dei lavori agricoli e minerari a favore dei colonizzatori spagnoli tra i quali essi furono suddivisi (tale istituto ebbe il nome di repartimiento); il sistema fu sviluppato, perfezionato e, sotto certi aspetti, corretto poco dopo con la creazione della encomienda. Grazie a tale istituto la terra conquistata veniva divisa in tanti lotti affidati a dei soldati-proprietari, gli encomenderos; con la terra però venivano assegnati (o, come il termine giuridico encomendar propriamente significava, affidati) anche gli indios che l'abitavano. Si istituiva così un duplice rapporto come nell'omaggio-vassallaggio dell'età feudale: l'encomendero doveva nutrire, vestire gli indios e preoccuparsi della loro educazione alla fede cristiana; in cambio l'indio doveva lavorare per l'encomendero.
Non tutto fu avidità e ipocrisia nella creazione di questo regime dell'encomienda, che rispondeva sia all'esigenza fondamentale di trovare la manodopera locale necessaria per mettere a frutto l'insediamento nelle nuove terre sia al desiderio spesso sincero e disinteressato dì convertire gli indigeni alla fede in Cristo; ma, cionostante, è impossibile non riconoscere che esso creò un nuovo tipo di servitù legalizzando il lavoro coatto, e rese più facile l'inumano sfruttamento degli indios. La maggior parte di costoro furono vittime delle epidemie, dell'eccessivo lavoro, dei maltrattamenti crudeli ai quali i loro padroni li sottomettevano.
Una denuncia veemente di questo stato di cose è negli scritti e nell’opera di Bartolomeo di Las Casas:

«Terminate che furono le guerre, e morti in esse tutti gli uomini, non rimasero, come suol sempre accadere, che i giovani, le donne e i bambini. E i cristiani se li spartirono: all'uno ne toccavano trenta, all'altro quaranta e all'altro ancora cento o duecento, a seconda del favore che ciascuno era riuscito a guadagnarsi presso il tiranno supremo, che chiamavano governatore. Quelle genti furono così ripartite fra i cristiani col pretesto che questi li avrebbero istruiti nelle case della fede cattolica. Si affidò dunque la cura delle loro anime a uomini per lo più idioti e crudeli, avarissimi e viziosi. E la cura e zelo ch'essi ebbero per loro fu di mandare gli uomini nelle miniere a cavare oro, che è una fatica intollerabile; quanto alle donne, le mettevano nelle tenute, che sono masserie, a zappare poderi e a coltivare la terra, che è un lavoro da uomini forti e vigorosi. Agli uni e alle altre non davano da mangiare se non erbe e cose senza alcun nutrimento. Il latte si seccava nel seno delle madri, e così morirono in breve tutte le loro creature. E poiché i mariti, tenuti lontani, non vedevano né s'accostavano mai alle loro mogli, cessò tra quelle genti la procreazione. Morirono gli uomini nelle miniere di fatica e di fame, e tra gli stessi tormenti perirono le donne nelle tenute. Cosi ebbero fine le tante e sì grandi moltitudini d'abitanti di quell'isola, e a quella maniera avrebbero potuto pur consumarsi tutte le genti del mondo.
In verità occorrerebbe troppo tempo, troppa carta, per parlare di tutti i tormenti che i cristiani infliggevano agli indiani nel farli lavorare: non si riuscirebbe a finire, e la cosa desterebbe stupefatto orrore tra gli uomini. Li obbligavano a mettersi in spalla carichi di tre o quattro arrobe (circa 15 chilogrammi), e così oberati li costringevano a marciare per cento o duecento leghe, mentr'essi si facevano portare sulle amache, che sono sorte di reti, a dorso degli stessi indiani: poiché sempre hanno usato di loro come di bestie da soma. Per via dei carichi gli indiani eran pieni di guidaleschi e di piaghe sulle spalle e sulla schiena, come animali rifiniti. E non sto a dire delle frustate, dei colpi di bastone, dei pugni, delle ceffate, delle ingiurie e di mille altri generi di tormenti.»
(Da Bartolomeo de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Mondadori, Milano 1987 -l’edizione originaria è del 1542-, pp. 42-43)

Assai per tempo anche gli altri frati missionari insorsero contro tale vergognoso spettacolo e denunziarono la cupidigia degli encomenderos e la connivenza della corona spagnola, costringendo quest'ultima ad emanare più di una volta delle leggi in difesa degli indios (le prime leggi del genere furono quelle emanate a Burgos nel 1512); e nella stessa Spagna divampò una polemica culturale e ideologica dì estrema importanza tesa a giustificare o a condannare tale regime coloniale.
In questo dibattito occorre ricordare, accanto alle figure dell’umanista Juan Gines de Sepulveda (sostenitore della naturale “inferiorità” degli indios) e dello stesso Las Casas (da molti considerato “l’apostolo delle Indie” per l’opera di difesa dei diritti degli indios), la grande figura di Francisco De Vitoria (1492-1546), professore di teologia presso l’università di Salamanca che, fondandosi sul principio evangelico dell’uguaglianza di tutti gli uomini, in quanto figli di Dio, elaborò nei suoi scritti quella che potremmo chiamare la prima Carta dei diritti degli indios, e l’operato di papa Paolo III (1534-1549), che con la Bolla Sublimis Deus (1537) stabilì ufficialmente la capacità degli indios di ricevere la fede e la necessità di riconoscerne i diritti umani.
Si arrivò così alle cosiddette “Leyes Nuevas” del 1542 da parte del re di Spagna (e imperatore del Sacro Romano Impero) Carlo V, che misero in atto una riorganizzazione complessiva della società coloniale (la corona spagnola rifiutò ad esempio di rendere ereditaria l’encomienda ele terre rimasero proprietà personale o collettiva degli Indiani, i quali conservavano allo stesso modo gli altri loro beni, il domicilio, la libertà familiare, la piena capacità giuridica e civile) promuovendo  al contempo un’ampia opera di controllo degli abusi sugli indios.

Ma, di fatto, per tutto il XVI secolo la realtà fu molto spesso diversa dalla norma legislativa e l’encomienda venne ampiamente utilizzata per uno sfruttamento indiscriminato del lavoro indigeno
 

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