Nei primi decenni del XVI secolo i mercanti, gli avventurieri e gli esploratori delle nazioni atlantiche ampliarono enormemente gli orizzonti degli europei; ai contatti discontinui intercorsi nel medioevo tra Europa e Asia subentrarono nel periodo rinascimentale scambi diretti e proficui tra i mercanti europei e le monarchie asiatiche. «Che cosa mai siete venuti a cercare quaggiù in India?», fu chiesto a Vasco da Gama nel Malabar: «Cristiani e spezie» fu la pronta risposta. Le spezie in particolare il pepe e lo zenzero, divennero la principale fonte di ricchezza della Corona portoghese, che nella prima metà del Cinquecento guidò l'esplorazione europea delle Indie orientali, della Cina e del Giappone; e il portoghese Magellano, dopo aver trascorso sette anni nelle Indie, passò al servizio della Spagna e contribuì a farle assumere un ruolo decisivo nella lotta per i possessi d'oltremare. Furono queste due piccole nazioni, che insieme contavano appena nove milioni di abitanti, a dilatare le dimensioni del mondo conosciuto.
Le ricchezze ammassate dal Portogallo tra il 1500 e il 1520 - qualcosa come 10.500 tonnellate di spezie dal Levante e circa 400 chili di oro l'anno dall'Africa occidentale – suscitarono la rivalità degli spagnoli. Mentre i portoghesi esercitavano un rigoroso controllo sulle notizie riguardanti i loro traffici, gli spagnoli non furono mai così riservati e permisero il libero scambio delle informazioni: altrimenti, affermava lo storico Antonio de Herrera, «la reputazione della Spagna verrebbe rapidamente meno, in quanta le nazioni nemiche direbbero che c’è da prestare scarso credito alle parole dei suoi governanti, che non permettono ai loro sudditi dì parlare liberamente». Dopo la metà del secolo le grandi raccolte di narrazioni di viaggi, specialmente quelle del veneziano Ramusio (Delle navigationi et viaggi, 1550) e dell’inglese Hakluyt (The Principal Navigations, Voiages and Discoveries of the English Nation, 1589), cominciarono a sfatare i vecchi miti sui territori d'oltremare e a presentare ai lettori realtà molto diverse dalle favolose descrizioni di mostri ermafroditi e di uomini dalla testa di cane proposte ai loro padri.
Quella dei traffici e delle esplorazioni fu la fase d’avvio - limitata per lo più ai primi decenni del secolo - della scoperta del mondo esterno da parte dell’Europa. All’inizio fu lo stupore a dominare gli animi, e molti furono colpiti dalla constatazione che spesso l’Asia e l’America superavano l'Europa quanto a esempi di meraviglioso. Antonio Pigafetta, che nel 1519 salpò con Magellano per la prima circumnavigazione del globo, asserì di aver sentito dire che l'imperatore della Cina era «il più potente della terra»; nel 1521, scrivendo a Carlo V dope essere entrato a Tenochtitlán, Cortés definiva la città «la cosa più bella del mondo» affermando che dei palazzi di Montezuma «non c’era l’uguale in tutta la Spagna» e che il grande tempio era qualcosa «le cui dimensioni e la cui magnificenza nessuna lingua umana poteva descrivere»; Bernal Diaz, ricordando in vecchiaia gli splendori di Città del Messico, riferiva che «alcuni nostri soldati che erano stati in molti paesi, a Costantinopoli, a Roma e in tutta Italia [...] non avevano mai visto un mercato così ben disposto, così grande, animato e ordinato».
A questa iniziale consapevolezza della parte limitata spettante all’Europa nella civiltà mondiale si sostituì nel corso del XVI secolo un atteggiamento più aggressivo: fiduciosi nella loro superiorità,
gli europei entrarono nell’età del colonialismo. Questo comportamento era alimentato in parte dalla convinzione che bisognava portare la fede cristiana tra i pagani: sotto tale aspetto risultati particolarmente notevoli furono ottenuti da uomini come san Francesco Saverio (m. nel 1552), che nella sua visione globale del problema missionario sì spinse fino a Goa, nel Malabar, a Malacca, nel Giappone e sulle coste cinesi, o come fra Toribio de Motolinía, che nel 1544 sbarcò in Messico con altri undici francescani, dando inizio alla prima evangelizzazione su larga scala fuori dall’Europa. Ma in parte la nuova tendenza nasceva dalla presunzione di un’intrinseca superiorità razziale. «Come possiamo dubitare», scriveva nel 1547 lo storico e umanista spagnolo Juan Sepúlveda, «del buon diritto con cui questi popoli così incivili, così barbari, contaminati da tante empietà e oscenità, sono stati sottomessi da una nazione così umana e che eccelle in ogni virtù?».
(da Henry Kamen,
L’Europa dal 1500 al 1700, Laterza, 2000)