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L’uomo del quattrocento: artefice,artigiano,artista.

Unusquisque faber fortunae suae: ciascuno è artefice della sua sorte.
La massima percorre il secolo di Colombo e si rifrange in mille imprese araldiche, in mille motti cari a condottieri e a signori.
La parola faber sembra quasi un termine-chiave del Rinascimento: costruttori di stati, fonditori di cannoni, tecnici e tecnologi, architetti-urbanisti e pittori-matematici, i protagonisti del Quattrocento
sono tutt'altro che superuomini invasati dal demonico fuoco del genio come qualche autore romantico ha voluto descriverli. Al contrario, essi sono anzitutto e soprattutto dei professionisti attenti, dei
“meccanici” il cui principale titolo di merito è la conoscenza della loro arte intesa come techne. “Sapere”, “fare” e “saper fare” sono gli elementi costitutivi di un mondo nel quale i capi di stato sono soprattutto finanzieri accorti e abili generali e gli artisti sono anzitutto artefici e artigiani.
A Firenze, maestri come il Verrocchio, il Pollaiuolo e il Botticelli non esitano - e si sentono, nel farlo, tutt'altro che sminuiti - a intraprendere la regia delle feste cittadine e a disegnare direttamente stendardi e gualdrappe per le giostre nelle quali si cimentano i giovani delle grandi famiglie cittadine; e grandi ingegni come il Brunelleschi e gli Alberti si occupano di automi in grado di misurare il tempo o di azionare fontane, di questioni e di calcoli di statica e di prospettiva, di problemi relativi alla fusione dei metalli.
L'arte rinascimentale non scaturisce affatto da severi e silenziosi templi del genio: essa è figlia delle botteghe rumorose, dei polverosi cantieri delle chiese e dei palazzi, delle cave di pietra, delle fucine.
L'artista é prima d'ogni altra cosa un artigiano che da una parte segue le regole della sua arte, dall'altra cerca di continuo di migliorarle e di confrontarle con nuove realtà e nuove invenzioni.
Noi ammiriamo oggi l’eroicità d' una lunga serie di sculture in marmo o in bronzo che, dal san Giorgio di Maso di Banco attraverso i David di Donatello, del Verrocchio e di Michelangelo, giunge al Perseo del Cellini: e sappiamo bene che in quelle opere vive - diversamente atteggiata, nell'arco di alcuni decenni - la coscienza politica della Firenze che si riconosce nella sua vocazione alla libertas e nella sua lotta contro la discordia interna (le serpi attorte della chioma di Medusa) e la tirannia esterna (il drago vinto da Giorgio, Golia oppure - come nella “Giuditta” di Donatello - Oloferne decapitati dall'eroe o dall'eroina nella quale la repubblica si identifica).
Ma tutto questo non basta ancora ad avvicinarci sul serio a quel tipo d'opere d'arte e al loro messaggio, se non teniamo accuratamente presente il fatto che quelle opere nascono altresì dall'applicazione d'una vigile e raffinata tecnologia, messa a punto al servizio non solo del Bello, ma anche dell'Utile. Dietro la sapiente fusione dei metalli della quale il Ghiberti e il Cellini sono maestri sta l’abilità artigiana non solo dell'orafo e del cesellatore, ma anche del fonditore di campane e di cannoni; l'abilità di continuo sollecitata dalle richieste di una società in crescita, che lavora e che combatte, che commercia e che si espande.
Le città erano nel Quattrocento - così come per la verità erano state durante il medioevo - immensi cantieri, nei quali accanto alla costruzione delle cattedrali che durava spesso intere generazioni sorgevano anche palazzi pubblici e sontuose dimore private. L'attività edilizia era una delle principali forme d'impiego di quantità importanti di manodopera, quindi la condizione che permetteva a lavoratori non specializzati - a differenza di quelli impiegati nel lavoro della tessitura, della tintoria, della fonderia e via dicendo - di accedere al centro urbano e di mantenervisi magari aiutati dalle numerose istituzioni assistenziali religiose. Le frequenti epidemie, che dal 1347-50 si erano abbattute sull'Europa, avevano in un primo momento spopolato le città aprendo grandi brecce nel loro tessuto urbano: a Firenze ad esempio la terza cinta di mura, costruita ai primi del Trecento con discreta lungimiranza per accogliere una popolazione che raggiungeva ormai i centomila abitanti e che si prevedeva dovesse ulteriormente aumentare, si era trovata alla fine di quel medesimo secolo nella condizione di un abito troppo largo su un corpo smagrito. Nei larghi spazi intramurari che avrebbero quindi dovuto ospitare popolosi insediamenti si era invece impiantato il mondo delle grandi famiglie oligarchiche che aveva comprato quei terreni rimasti liberi da edifici e che li aveva usati per fondarvi i suoi grandi palazzi o per edificarvi - come avevano fatto i Rucellai con i loro “Orti Oricellari” presso Santa Maria Novella - spaziosi e ariosi giardini adatti al vivere raffinato e alla speculazione filosofica.
D'altra parte, le continue pestilenze - e pertanto l'esperienza del contagio - si erano affiancate alle rivolte urbane che avevano interessato un po' tutta l'Europa occidentale nell'ultimo quarto del secolo XIV per consigliare i ceti dirigenti del Quattrocento di ripensare in modo radicale l'assetto stesso delle città in modo da renderle più salubri, più dignitose e più sicure. Architetti come Leon Battista Alberti o Francesco di Giorgio Martini si erano quindi impegnati a risolvere un problema che avrebbe affascinato anche Leonardo da Vinci: come costruire - chiamando a raccolta le risorse empiriche della conoscenza del territorio e quelle simbologiche della Bibbia e dell'antica filosofia - una dimora a misura d’uomo atta al vivere sociale che ne esaltasse i pregi e ne eliminasse o quanto meno ne controllasse i rischi e i difetti. Era il tema della "città ideale", che spesso si realizzava non tanto sotto forma di nucleo davvero abitato quanto - ed è sintomatico - sotto forma di fortezza oppure di "insediamento-scenario" del tipo che Pio II volle realizzare nella sua natia Corsignano, divenuta il centro-modello di Pienza. Verso il 1482 Francesco di Giorgio Martini, nel suo Trattato di architettura, avrebbe disegnato “città ideali” a forma di spirale, di ottagono, di poligono regolare o irregolare: più o meno contemporaneamente, in un'opera dal medesimo titolo, il Filarete avrebbe concepito per il duca di Milano una città eretta a gloria della casa Sforza - chiamata appunto “la Sforzinda” - rigorosamente impiantata su un disegno a raggiera e arricchita di portici e di canali che la rendevano più decorosa e più sicura; e nel 1497 Leonardo da Vinci, ospite del duca di Milano Ludovico il Moro, prevedeva addirittura una città provvista di una rete stradale “a due piani”, uno di rappresentanza e per l'aristocrazia e uno inferiore, “di servizio”. per la plebe. Del resto già Leon Battista Alberti - lodando spregiudicatamente l'organizzazione circoscrizionale della città del Cairo, nonostante essa fosse retta dagli “infedeli” - aveva ipotizzato un centro nel quale «le habitazioni dei nobili fussino tutte insieme libere, e purgate dal miscuglio della plebe».
Il problema del rapporto fra urbanistica e politica - individuato dalle tesi albertiane e leonardesche sulla separazione fra “nobili” e “plebe” - impone di giungere a quello che è forse il nucleo della rivoluzione artistica ed estetica del Rinascimento: la connessione fra arte (come momento “alto” dell'attività manifatturiera e artigiana, ma anche come espressione concreta, plastico-figurativa, di idee e di concetti a carattere filosofico) e potere, attuata attraverso la committenza e il serrato dialogo che in quell'ambito si apriva tra forze di governo e ingegno tecnologico-poetico.
In questo senso le pur interessanti ricerche degli studiosi moderni attorno al nodo costituito tra le esigenze dei committenti, le singole opere d’arte - non importa se letterarie, architettoniche o pittoriche - e il condizionamento che esse potevano imporre agli artisti (correlativo del resto a quello che essi con la loro poetica e spesso con i capricci del loro genio imponevano ai loro clienti) si rivelano insufficienti a giungere al fondo della questione anche se preziose a chiarire, volta per volta, i caratteri della genesi di questa o di quella opera d'arte. In effetti la politicità e in molti casi i caratteri addirittura propagandistici di questa pur grande arte non sono sovrastrutturali rispetto al valore poetico di essa ma ne costituiscono al contrario i fondamenti.
(da Franco Cardini, L’alba della modernità, Il Cerchio, 2002)

 

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