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PROFESSIONE MERCANTE: il caso di Francesco Datini

Nel corso del Medioevo assume una caratterizzazione specifica la professione del mercante, l’operatore economico “professionista”.

Grazie all’Archivio Datini (che è il più ricco fondo d’archivio mercantile del Medioevo e del Rinascimento) siamo in grado di ricostruire nel dettaglio le “chiavi del successo” di un grande mercante del Trecento, Francesco di Marco Datini (1355 ca- 1410)

FRANCESCO DATINI

Espressione di una vicenda storica particolare, il fondo Datini riflette fedelmente lo spazio e le tecniche del grande commercio fiorentino intorno al 1400.
Due erano le forme di comunicazione essenziali al buon funzionamento di una rete di affari, ed esse hanno dato origine alle due principali serie del fondo. In ogni agenzia, le transazioni dovevano poter essere ricostruite, ed eventualmente verificate, a qualche anno di distanza. Questa memoria, incentrata sugli interessi immediati, si costituiva per mezzo dei documenti contabili. Le corrispondenze trasmettevano, dal canto loro, l'informazione nello spazio, non solamente fra il dirigente e i suoi dipendenti, ma anche fra le agenzie appartenenti a una stessa rete o a interlocutori esterni a essa, aprendosi cosi su un orizzonte motto più vasto.

LA PIAZZA DI AVIGNONE
Francesco di Marco era partito, all'inizio, da una situazione precaria: nato da un oscuro macellaio di Prato e rimasto orfano di entrambi i genitori, in seguito alla peste del 1348, egli aveva presto tratto partito dalle sue relazioni di vicinato e dai suoi primi contatti nelle botteghe di Firenze per tentare la via dell'emigrazione. Alcuni conoscenti gli avevano probabilmente segnalato la disponibilità di un posto da apprendista in una bottega di Avignone. Dall'età dell'adolescenza, nel 1350, egli aveva dunque lasciato la terra natale. La presenza della corte pontificia faceva allora della città provenzale una delle rare piazze bancarie dell'Occidente e uno dei principali centri del consumo di prodotti di lusso. Come Giovanni Sercambi faceva eco nelle sue novelle, «tutta la cristianità vi correa», attirata dalle possibilità di guadagno. Verso il terzo quarto del XIV secolo, vi risiedevano fino a trecento Toscani, dediti per la maggior parte alle attività commerciali, dall'import-export e dalle banche ai servizi di mediazione resi dai sensali o dai locandieri.

LA PRIMA AGENZIA
Una decina di anni dopo il suo arrivo ad Avignone, Francesco aveva costituito con alcuni Fiorentini delle associazioni di modesta levatura, ma nel 1373 si era già arricchito al punto da poter dirigere una propria agenzia. La sua bottega, con la qualifica di armeria e di merceria, era specializzata nei prodotti metallurgici: armi, utensili e accessori d'abbigliamento, importati soprattutto dalla Lombardia. Ma egli traeva profitti supplementari dalla ridistribuzione di mercanzie varie: fustagni e veli italiani, prodotti dell'artigianato di lusso importati da Firenze e dal Nord della Francia, lane, granaglie, mandorle o sale di Provenza. A quest'epoca, il suo successo cominciava a distinguerlo fra i compatrioti. Egli stesso non mancava, in età matura, di offrirsi a modello ai suoi dipendenti, attribuendo alla propria capacità di iniziativa un ruolo essenziale nell'arricchimento raggiunto. A quanto diceva, era solito trascorrere, per esempio, motto tempo, durante i suoi anni avignonesi, a frequentare gli alberghi presso i quali alloggiavano i mercanti provenienti dalle regioni del Nord, che egli interrogava a lungo a caccia di informazioni dettagliate sul mercato di altri prodotti. Grazie a questa curiosità ma anche alla sua ponderazione, egli si vantava di aver più che decuplicato, in sei/otto anni, il capitale di una delle sue prime compagnie.

RITORNO IN TOSCANA
L'agiatezza finanziaria alla quale era giunto nei suoi anni di emigrazione gli imponeva di tagliare altri traguardi sulla via del successo: matrimonio con una donna di buona famiglia e il ritorno in patria. Francesco di Marco sposò nel 1376 Margherita Bandini, una giovane fiorentina. Nel corso dell'inverno 1382-1383, la coppia ripartì per stabilirsi in Toscana. A molti mercanti arricchitisi all'estero, il reinserimento nella società d'origine offriva l'occasione di un cambiamento nel modo di vivere, che poteva tradursi spesso nell'esercizio di cariche politiche o in un ritiro dagli affari commerciali, accompagnato da consistenti investimenti fondiari. Francesco di Marco, al contrario, doveva approfittare del gruzzolo che aveva accumulato per proseguire la sua accanita ricerca di profitto, accrescendo ulteriormente il volume e il ventaglio delle sue imprese. Egli definiva l'inattività («ozio») come «la più triste vita che sia». Solo la pratica delle devozioni avrebbe potuto allontanarlo dalla ricerca di nuovi mercati e dalla cura dei suoi molteplici interessi. Ma egli doveva differire fino alla morte la decisione relativa a questa conversione. Né la preoccupazione per la sua anima, né i problemi di salute che avrebbe conosciuto in vecchiaia, e nemmeno i rari momenti di tregua che si concedeva dirigendo i cantieri di costruzione delle sue residenze, dovevano in fin dei conti strapparlo durevolmente al suo scrittoio di mercante.

AL CENTRO DELLA RETE
In una quindicina di anni, egli mise in piedi un sistema complesso di imprese commerciali, bancarie e industriali. Giuridicamente indipendenti le une dalle altre, queste compagnie trovavano la loro piena efficacia nella coordinazione, assicurandosi mutuamente numerose prestazioni.
Francesco di Marco era impegnato a mantenere la sua agenzia di Avignone, punto strategico fra regioni del Nord e area mediterranea, ma anche fonte della sua fortuna e della sua fama nel campo degli affari. Egli doveva ora fondare in Toscana una sede centrale, dalla quale si sarebbe assicurato il controllo a distanza dei propri interessi. Ma i suoi progetti non erano stabiliti in anticipo. Nel corso degli anni seguenti avrebbe risieduto spesso a Firenze e a Prato, intervallando questo andirivieni con prolungati soggiorni a Pisa, per seguire da vicino i suoi affari, e a Pistoia e Bologna, quando la diffusione della peste lo spinse a fuggire in una città reputata sana. Restio all'idea di un ritiro definitivo nella sua città natale, egli parlava anche di tanto in tanto della possibilità di ritornare ad Avignone, o di andare a stabilirsi a Venezia.
Francesco seppe trarre vantaggio dalle amicizie che era riuscito a stringere, nel corso dei suoi anni avignonesi, in seno al mondo degli affari fiorentino, per allestire insieme a giovani collaboratori un sistema ramificato di agenzie: dopo la creazione di un primo gruppo di compagnie commerciali a Prato, Firenze e Pisa, egli estese questa sua rete, negli anni Novanta del XIV secolo, creando i banchi di Genova e di Catalogna. Parallelamente, approfittava delle sue relazioni con alcuni artigiani del settore tessile per creare a Prato due compagnie specializzate nella produzione di drappi di lana e nella loro tintura. Si associó, infine, con un cambiatore per installare, al Mercato Nuovo di Firenze, un banco che operava il cambio manuale, nonché il prestito e il trasferimento di credito a mezzo lettere di cambio. Mise anche a profitto relazioni di parentela e conoscenze per istituire una collaborazione regolare con mercanti stabiliti su altre piazze.

UN FIUME DI LETTERE
Francesco intratteneva questi rapporti grazie a un flusso costante di corrispondenza, veicolato da organizzazioni collettive di corrieri regolari (le cosiddette "scarselle"), da imprese private di messaggeri ordinari ed espressi e da tutti gli altri viaggiatori disponibili: vetturali, padroni di navi, mercanti o pellegrini. La comunicazione aveva più spesso luogo in italiano, nelle diverse varietà regionali della lingua, il che non toglie che siano entrate nell'Archivio Datini lettere in latino, in francese, in provenzale, in catalano, in castigliano e in arabo.
I vari membri di un'agenzia, che si dividevano il compito di tenere le scritture, lamentavano spesso di trascorrere in quella sede le loro notti e perfino i giorni di festa. Mentre gli apprendisti o i giovani agenti familiarizzavano con le formule e ricopiavano brani di lettere per ridistribuire un'informazione o per rimediare ai disguidi di consegna da parte dei corrieri, il capo di un'agenzia periferica si riservava spesso le relazioni importanti. Era lui a mantenere il contatto con il dirigente della rete ed era l'unico abilitato a firmare gli ordini che implicavano storni di fondi. Quanto a Francesco di Marco, la sua partecipazione diretta alle transazioni diventava a mano a mano sempre più limitata ed era soprattutto dal suo ufficio che egli vigilava sul funzionamento della sua rete di affari.

LE BIBBIE DEL MERCANTE
Le lettere che circolavano in questi reticoli commerciali si presentavano come testi talvolta lunghissimi, se non addirittura veri quaderni composti da una ventina di pagine che venivano ironicamente chiamati "bibbie" o "salteri". A queste missive si aggiungevano spesso degli scritti specializzati: lettere di cambio, estratti conto, corsi di prezzo ("valute"), elenchi di mercanzie spedite (legaggi, lettere di vettura, carichi di nave), o memorandum.
La corrispondenza propriamente detta conteneva lunghe enumerazioni di transazioni in corso e una moltitudine di informazioni sui prezzi, la qualità dei prodotti, le circostanze naturali e politiche suscettibili di influenzare la congiuntura. Essa permetteva, in tal modo, tanto di seguire l'andamento degli affari quanto di sondare nuovi mercati.
A questo tipo di informazione spesso tecnica si mescolavano inestricabilmente notizie a carattere personale e giudizi sul rapporto di scambio. La corrispondenza era così il luogo di una negoziazione delle prerogative di ciascuno.

RECLAMI E DINIEGHI
L'amicizia era ritenuta l'elemento unificatore di tutti i partecipanti a questa rete di affari, al di là delle gerarchie o dell'appartenenza a una certa agenzia. Tutte le offerte, richieste o prestazioni erano dunque valutate in funzione delle norme di reciprocità. Determinate situazioni provocavano tuttavia ricorrenti tensioni. I rapporti fra le agenzie si allacciavano all'inizio attorno a offerte di servizi mutui. Ma, alla lunga, l'esecuzione delle commissioni dava sovente luogo a una sequela di reclami da una parte, di dinieghi dall'altra. Se le mercanzie inviate dall'altra agenzia erano mal vendute, era per il fatto che la loro qualità lasciava a desiderare. Se non era stato ancora spedito il ricavato di una vendita, era perché l'interesse del corrispondente avrebbe sofferto di un corso di cambi sfavorevole.

APPRENDISTI, SOCI E SALARIATI
Tra Francesco di Marco e i suoi dipendenti, il contatto epistolare sottintendeva la nozione di una protezione e di una direzione morale offerte in cambio di un servizio personale. La maggior parte degli apprendisti era direttamente reclutata dallo stesso Francesco in Toscana. Egli cercava nella sua cerchia un adolescente «leale e di bonissima condizione, con amore alle cose della compagnia... reverente e ubidiente a' suoi maggiori». Appena arrivati all'estero, questi giovani si affrettavano a dimostrare il loro attaccamento al lavoro, e Francesco rispondeva loro alternando incoraggiamenti e ammonizioni. Ma per una buona metà questi ragazzi venivano rispediti in patria, oppure essi stessi preferivano prendere la via di casa nel corso dei due primi anni della loro permanenza all'estero. I salariati un po' più esperti approfittavano di questo canale di comunicazione per rinegoziare il proprio ruolo nella bottega: alcuni esigevano di tenere la cassa e i registri dei conti, invece di essere relegati a ruoli subalterni come la forbitura delle armi. Dopo parecchi anni di servizio, l'agente cercava di accrescere i propri guadagni attraverso la partecipazione ai benefici. Infine, una volta associato, egli desiderava ben presto aumentare la propria parte di profitti a spese dei suoi soci.

PRATICHE SOSPETTE
Poiché il buon andamento dell'agenzia dipendeva anche dall'atmosfera di competizione spinta e di mutua sorveglianza, la delazione di ogni tipo di comportamento sospetto era subito imposta dal "maggiore" ai suoi dipendenti come parte integrante della loro missione. L'incubo di un dirigente come Francesco di Marco era di vedere la propria fiducia tradita da un collaboratore: «Uno de' minori compagni che à, può levare tanti crediti e mercatanzie che può farlo vituperare e fallire». Particolarmente sospette erano le pratiche di gioco e di concubinaggio, dal momento che le spese che esse implicavano inducevano a compiere furti dalla cassa e a truccare la contabilità. Anche dopo una trentina di anni di servizio, un vecchio agente divenuto braccio destro di Francesco a Firenze venne brutalmente cacciato, quando il "maggiore" scoprì delle irregolarità nella sua gestione.
Questi rapporti erano dunque spesso improntati a una certa ambivalenza. Legarsi a un "maggiore" equivaleva a scommettere che la fedeltà avrebbe finito con il fruttare un beneficio sostanziale. Ma, se incoraggiava questa speranza presso i propri dipendenti, il padrone si guardava bene dal legarsi le mani: per ricompensare un collaboratore fedele, infatti, non era fissato alcun termine. Francesco di Marco era giudice e parte di ogni divergenza: il ricorso a un arbitraggio esterno poteva essere preso in considerazione fra associati, ma era alquanto improbabile nel caso di un agente malcontento del suo "maggiore". Reclamare un arretrato del proprio salario era a fortiori interpretato come un tentativo di diffamazione e di estorsione di fondi. La dimensione contrattuale del salariato e dell'associato era così repressa e minata dalla logica clientelare delle relazioni personali. Tutto sommato, la situazione smentiva largamente le belle asserzioni di Francesco riguardo ai suoi agenti: «Tra 'I credito e la buona fama mia, io gli feci ricchi».

(Riduzione da Jerome Hayez, Professione mercante, in Medioevo, VII, n. 1, 2003)

 

 

 

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