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L’ABOLIZIONE DELLA SERVITU’ NEL MEDIOEVO

Nel cuore del Medioevo matura la convinzione che la schiavitù sia una “macchia intollerabile”, fonte di umiliazione per l’uomo e diminuzione della dignità e prestigio di un popolo, di una città, di una civiltà.
Riproduciamo qui la descrizione di come questo problema venne affrontato (e “risolto”) dal Comune di Bologna alla metà del Duecento.
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Nel corso di un anno davvero memorabile per la storia di Bologna, fra il 7 giugno 1256 e il 3 giugno
1257, le autorità comunali di quella città affrontarono con decisione e risolsero, almeno sul piano legislativo, un problema sociale di enorme portata e di grande complessità: l'abolizione della servitù, la liberazione collettiva di tutti gli uomini e le donne che, in città e nel distretto bolognese, vivevano privi dei diritti civili e della libertà personale.
Un tema intricatissimo, già a partire dalla definizione del gruppo sociale destinatario dell'intervento, di cui facevano parte categorie diverse di persone, legate ai loro padroni da vincoli di dipendenza molto stretti, ma di varia natura: servi veri e propri, eredi degli schiavi antichi, impegnati in lavori agricoli e prestazioni d'opera diverse; «manenti», cioè coloni di condizione servile residenti su terre padronali; servi «di masnada», che costituivano piccoli eserciti signorili e così via.
Per tutti costoro e per le loro famiglie, nell'insieme 5855 persone, l'esito del provvedimento, sancito dallo statuto del giugno 1257, fu la piena libertà, acquistata dal Comune pagandola ai rispettivi padroni al prezzo di 10 lire per i maggiori di 14 anni – più o meno il valore di mercato di un bue o di un buon cavallo – e 8 lire per i minori, senza differenza fra maschi (servi) e femmine (ancille). L'operazione costò alle casse comunali la cifra complessiva di 53 014 lire, da versare in ire rate annuali al consorzio che riuniva i 379 proprietari dei servi; una spesa molto considerevole, compatibile tuttavia con la situazione finanziaria di un Comune che, per fare un esempio, in quegli anni prevedeva in bilancio per la sola retribuzione del personale una voce passiva annuale di oltre 15 000 lire.

LA GESTIONE DI BONACCORSO
Destano una certa sorpresa, in chi studia oggi questo tema, la rapidità e l'efficienza amministrativa con cui l'operazione venne condotta a termine. I tempi furono infatti molto brevi, considerando che i soggetti coinvolti costituivano quasi il 10% della popolazione complessiva, e soprattutto valutando la difficoltà estrema di definire, in assenza dei moderni strumenti anagrafici, la condizione di ognuno rispetto alla libertà personale: accertamento preventivo ineludibile, affidato alla capillare indagine territoriale che realizzarono in pochi mesi gli ufficiali comunali, battendo a tappeto tutto il contado bolognese, comprese le più impervie zone appenniniche.
Ma il problema più delicato fu certamente quello del rapporto con i proprietari dei servi, appartenenti alla nobiltà di origine feudale e all'aristocrazia urbana, ma anche, sia pure in misura inferiore, alle maggiori famiglie del ceto mercantile; un gruppo sociale, quello dei magnati, allora in parte declinante e tuttavia ancora saldamente radicato nei centri del potere comunale. Nella gestione abilissima di questo rapporto politico ed economico, nell'applicazione geniale della logica del compromesso fra le forze in campo, aristocratici e società popolari con i loro opposti interessi di parte, si distinse un amministratore di forte personalità e grande esperienza, il nobile cremonese Bonaccorso da Soresina, chiamato dai Bolognesi a dirigere l'operazione anche in ragione della specifica esperienza di un altro esponente della stessa famiglia, Guglielmo da Soresina, che qualche anno prima aveva coordinato a Vercelli un intervento legislativo analogo, anche se di minor impatto demografico. Bonaccorso avviò il processo nel 1256, nel ruolo di Capitano del Popolo, e lo portò a termine l'anno successivo, ricoprendo invece l'incarico di Podestà, continuità di governo del tutto eccezionale e di dubbia legittimità costituzionale, che si giustificava proprio con le necessità e i tempi della complessa operazione, su cui evidentemente convergevano in quel biennio le attenzioni del mondo politico cittadino.

MATRIMONI MISTI
Liberare i servi non era in sé un provvedimento rivoluzionario: liberazioni personali e collettive erano sempre avvenute ed erano incoraggiate anzi dalla dottrina cristiana e, soprattutto in quei decenni, dalla predicazione degli Ordini mendicanti. Sul piano politico poi, interventi di liberazione collettiva si registrano nel Duecento in numerose città dell'Italia comunale: ad Assisi, per esempio, e a Parma, oltre che, come si accennava, a Vercelli. Ma in nessuno di questi centri il problema venne affrontato così radicalmente come a Bologna, liberando cioè tutti i servi, e in nessuna città, soprattutto, a questo provvedimento si diede un così alto valore ideologico. Eppure, anche a Bologna, tutto era cominciato con una questione apparentemente circoscritta per portata e implicazioni, quella dei matrimoni misti. Il legarsi in matrimonio a una donna di condizione servile comportava per un libero, oltre a una grave lesione della patria potestà sui figli, che appartenevano al padrone della moglie, una sorta di contaminazione personale, con la perdita dei diritti civili e della capacità contributiva, una forma particolare di esenzione fiscale, quest'ultima, non sempre sgradita, che anzi in certi casi poteva risultare un incentivo al matrimonio misto.
A correggere questa situazione intervenne lo statuto del 7 giugno 1256 che, pur riconoscendo in base al diritto comune i poteri del padrone sui figli delle serve, negava che questi potessero estendersi, come avveniva per consuetudine, ai figli di un servo e di una donna libera, che dovevano acquisire invece la condizione materna, e ristabiliva nei loro pieni diritti civili e nei doveri fiscali gli uomini liberi sposati a serve.

UNA DECISIONE EPOCALE
Le reazioni ostili da parte dei proprietari e i problemi applicativi di uno statuto apparentemente così moderato, indussero gli organi direttivi delle società popolari, e il Soresina in particolare, a prendere decisamente l'iniziativa, imprimendo un'accelerazione al processo e ampliandone la portata. Nel giugno-luglio 1256 furono condotte frenetiche trattative fra il Comune e i proprietari, sulla base di una proposta inedita e radicalmente risolutiva: la liberazione di tutti i servi. Le due parti elessero legali rappresentanti e nel volgere di due mesi circa si giunse a un accordo, definito formalmente dal lodo arbitrale del 24 agosto 1256: i proprietari si impegnavano a vendere tutti i loro servi e le serve al prezzo concordato con il Comune di Bologna, che da parte sua si impegnava ad acquistarli e, contestualmente, a proclamarli liberi. I mesi successivi furono dedicati alla complessa indagine territoriale e alla redazione degli elenchi dei servi da acquistare e liberare, elenchi pubblicati con la massima solennità nel memoriale del giugno 1257, noto come Liber Paradisus. A quei 5855 nomi fa riferimento lo statuto comunale del 3 giugno 1257, quando dichiara che da quel momento e per sempre quegli uomini e quelle donne, come tutti gli abitanti della città e del distretto di Bologna, debbono essere considerati liberi e come tali difesi dal Comune e dal popolo di Bologna.
Nell'affrontare una realtà così complessa e nel proporre una soluzione epocale del problema, la città e le sue istituzioni davano indubbiamente una grande prova di forza. E in effetti Bologna stava vivendo allora il suo secolo d'oro, toccando anzi, proprio negli anni Cinquanta del Duecento, l'apogeo delle sue fortune. Si stavano felicemente consolidando in quegli anni le nuove strutture istituzionali del Comune, in cui prendeva forma l'egemonia delle società popolari sugli organi tradizionali di governo.

(riduzione da Massimo Giansante, 1257 liberi tutti, in Medioevo, n.7, 2007)
 

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