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Alle origini delle corporazioni

Nelle sue Meditazioni sull'economia politica (1771), il riformatore lombardo Pietro Verri accusava le Corporazioni di «costipare nelle mani di pochi le arti e i diversi rami di commercio, di soggettare i manufattori e i mercanti a' pesi di diverse tasse, e di tenere sempre al livello della mediocrità e talora anche al disotto ogni manifattura»; negli stessi anni Turgot, nominato controllore generale delle finanze del Regno di Francia, le definiva «istituzioni sclerotizzate, a corto di dinamismo, [...] delle caste ereditarie». In nome degli ideali della libertà economica da molti allora invocata, in effetti, i pensatori del Secolo dei Lumi condannavano le Corporazioni senza appello, con un giudizio che avrebbe pesato a lungo nelle epoche successive finendo per proiettare sulle stesse Arti medievali una luce negativa.
Eppure queste istituzioni, create a partire dal XII secolo come strumenti di autogoverno dei ceti produttivi e mercantili, avevano regolato la vita economica delle città europee per buoni seicento anni.
La nascita di quelle che il linguaggio del tempo chiamava Arti in Italia, Métiers o Guildes in Francia e nelle Fiandre, Zünften in Germania, Guilds in Inghilterra, Gremios in Spagna – per citare solo i termini più frequenti – deve essere inquadrata nella più generale tendenza alla creazione di strutture associative che aveva trovato la sua massima espressione nella formazione dei Comuni.
Come i Comuni, infatti, le Corporazioni erano il risultato di patti giurati stipulati fra individui che esercitavano lo stesso mestiere o professione e che sentivano l'esigenza di unirsi per tutelare e promuovere interessi di carattere economico, sociale, politico e spirituale.
Più ancora di quella dei Comuni, tuttavia, la loro storia a legata alle città e al ruolo che esse assunsero nella fase più significativa dell'espansione economica bassomedievale, compresa fra la fine del XII e l'inizio del XIV secolo. In quasi tutta Europa, in quest'epoca, la produzione e il commercio di beni non agricoli si inserirono più decisamente nelle economie urbane.
Ogni centro, piccolo o grande che fosse, vide la crescita di attività tese a soddisfare la domanda del mercato locale, ma nelle città maggiori, che tendevano a costituirsi come poli di scambi regionali, la divisione del lavoro era più profonda e si potevano contare anche 100‑150 differenti mestieri: i più numerosi erano quasi sempre quelli del tessile e dell'abbigliamento, seguiti da quelli dell'alimentazione, del cuoio e delle pelli, delle costruzioni, dei metalli. Alcune città, inoltre, intrapresero o perfezionarono produzioni più specializzate, i cui articoli erano destinati ad alimentare un commercio di raggio talvolta vastissimo: Milano, per esempio, esportava le sue armature in tutta Europa, Pisa era una vera e propria capitale della lavorazione del cuoio, i centri tessili fiamminghi, e più tardi Firenze e Prato, producevano i migliori panni di lana reperibili in Occidente, Lucca era celebre per i suoi vivaci tessuti di seta. La varietà delle condizioni economiche, sociali e politiche delle diverse regioni europee, e spesso delle singole realtà urbane, condizionò in maniera sensibile la formazione e lo sviluppo delle Corporazioni.

UN SANTO PROTETTORE
In numerose città dell'Impero, per esempio, le associazioni di mestiere si formarono solo per iniziativa del potere signorile: è il caso di Strasburgo, dove i capi di ogni corpo professionale venivano nominati dal burgravio del vescovo; ma una dinamica analoga la si ritrova a tutt'altra latitudine, nel centro inglese di Bury St. Edmunds, dove fu l'abate, un po' prima del 1180, a incoraggiare i fornai a unirsi in Corporazione «a profitto della Chiesa e di tutta la città di St. Edmunds». Nel Nord della Francia, a Parigi, nelle Fiandre e spesso in Inghilterra un impulso determinante alla costituzione di organismi corporativi venne dai mercanti, riuniti in Guilds Merchant che controllavano sia la fabbricazione che il commercio dei prodotti, mentre gli artigiani e i commercianti al dettaglio si organizzarono in un secondo momento. Anche in questo caso, tuttavia, le generalizzazioni sono pericolose, visto che a Londra, grande centro di consumo, esistevano già nel XII secolo Corporazioni di fornai, tessitori, macellai, fabbri e sellai.
Si discute ancora sull'ipotesi che le istituzioni corporative si siano costituite a partire da precedenti esperienze di associazionismo confraternale. La derivazione da confraternite nate per fini devozionali e di mutua assistenza è evidente — per citare solo qualche esempio — nelle vicende dei mercanti della fiamminga Saint-Omer, uniti nel culto del santo omonimo almeno a partire dall'XI secolo, o in quelle dei fabbri di Caen in Normandia, la cui fraternita, fondata alla fine del XII secolo, si trasformò in Corporazione nei decenni successivi. Vi furono peraltro regioni, come la Linguadoca, nelle quali le confraternite apparvero assai più tardi delle organizzazioni di mestiere e altre, come la Castiglia, in cui l'origine confraternale delle Corporazioni, sempre postulata, è stata smentita dalle ricerche più recenti. Va anche detto che il regime corporativo non s'impose ovunque con la stessa capillarità, né si affermò dappertutto in un medesimo arco temporale: ancora nel XIII secolo alcune città delle Fiandre non possedevano Corporazioni e a Lione esse furono introdotte addirittura nel Cinquecento.
In Italia, terra di forti e peculiari esperienze di autogoverno urbano e di intenso dinamismo economico, le associazioni di mestiere, dette "Arti" (e talvolta anche "Paratici", "Fraglie", "Scuole", "Società", "Ordini", "Università", "Collegi"), ebbero una storia lunga e ricca, ma ancora una volta più variegata di quanto si potrebbe immaginare.

RAPPORTO ALLA PARI
Precoci attestazioni documentarie — come un atto ferrarese del 1112 — sembrano avvalorare la tesi della derivazione delle Corporazioni da preesistenti confraternite; altre, relative al Duecento ma rispecchianti in gran parte la realtà della seconda metà del XII secolo, individuano l'elemento originario e fondante dei sodalizi nel giuramento prestato dai membri di un determinato gruppo professionale, giuramento che li impegnava reciprocamente e che, diversamente da quello prestato dal vassallo al suo signore, era di natura paritaria. Una frattura profonda, inoltre, separava l’Italia comunale dal Mezzogiorno, dove la scarsissima autonomia politica delle città dall'autorità monarchica, insieme a una carenza di spirito di cooperazione e alla bassa considerazione del lavoro manuale, rese l’esperienza corporativa fragile e tardiva. Nel Regno meridionale solo all'inizio del Trecento cominciano a incontrarsi menzioni di associazioni professionali, ma fino alla metà del secolo esse avranno capi nominati dal sovrano o dai suoi rappresentanti e non otterranno un riconoscimento ufficiale.
Al di là dei differenti modi e tempi di formazione e di sviluppo degli organismi corporativi, comunque, le diversità più profonde riguardavano due aspetti: il peso disuguale che le varie Arti assumevano all'interno di una medesima realtà urbana e il diverso ruolo che il sistema corporativo giocava in rapporto alle varie città italiane. Per comprendere queste discrepanze bisogna tenere presente che nella Penisola, più ancora che nel resto d'Europa, le Corporazioni non furono mai soltanto strumenti di organizzazione economica o di solidarietà fra gli associati, ma espressero fin dal loro nascere una valenza politica che le rendeva parte integrante del sistema dei poteri cittadini. Ciò avvenne specialmente per le Corporazioni mercantili, in genere le prime a costituirsi e a dominare la scena anche in virtù della capacità dei loro membri di inserirsi, a fianco dell'aristocrazia militare e dei professionisti del diritto, nel ceto che avrebbe monopolizzato il potere nel primo secolo di vita dei Comuni.

DIRITTO DI RAPPRESAGLIA
Queste associazioni assunsero precocemente funzioni di natura pubblica, come il controllo su pesi e misure, la sorveglianza sulla sicurezza delle strade, la gestione di quel peculiare istituto delle relazioni commerciali noto come "diritto di rappresaglia". Assai più ristretti furono, in generale, gli spazi per le organizzazioni artigianali, nate e cresciute quando le elites mercantili avevano già consolidato la propria posizione e raramente in grado di sfuggire alla regolamentazione da queste imposta. La distinzione fra le Corporazioni dei mercanti (cui si affiancavano normalmente quelle che raggruppavano giudici, notai e medici, e nelle città manifatturiere quelle tessili) e le Corporazioni artigiane, sempre esistente di fatto, venne talvolta sancita ufficialmente: a Pisa, nel Duecento, le prime si chiamavano "Ordini", le seconde "Arti": a Firenze c'erano solo Arti, ma suddivise in "maggiori", "medie" e "minori"; a Como una "società dei paratici" raggruppava l'insieme delle associazioni artigianali. Questa fondamentale ripartizione non escludeva l'esistenza di un'ulteriore e più capillare gerarchia corporativa nella cui formazione convergevano il prestigio sociale, la consistenza economica e il peso politico di ogni singola associazione.
Non in tutti i centri urbani — si è detto — le Corporazioni raggiunsero la stessa rilevanza, perché differente fu nei diversi contesti, la forza della spinta associativa dei gruppi che le formarono e altrettanto articolato nel tempo e nello spazio il rapporto con il potere centrale. Volendo proporre uno schema cronologico molto generale si può affermare che nel primo secolo di vita comunale, il periodo "consolare", i Comuni non vollero o non seppero esercitare un controllo sugli organismi corporativi.
Solamente nel Duecento, nella fase "podestarile" matura, i Comuni intervennero in maniera più decisa nella regolamentazione dei diversi momenti della produzione e della commercializzazione dei beni e si preoccuparono di approvare una legislazione che contenesse potere monopolistico delle Arti in materia di prezzi e salari. Il fenomeno interessò in misura molto accentuata le attività legate all'approvvigionamento e ai trasporti, considerate strategiche per il mantenimento degli equilibri politici e sociali, ai cui addetti furono imposte numerose limitazioni.

DALLA PARTE DEL POPOLO
Gli sviluppi ulteriori appaiono più segnati dalla diversità delle esperienze politiche locali che non da tratti comuni. Vi furono cosi città, come Bologna e Firenze nella seconda metà del Duecento, in cui l'avanzata delle forze "popolari" si tradusse in una stretta simbiosi fra associazioni di mestiere ed esercizio del potere pubblico e nella creazione di un vertice di governo che ricalcava la struttura delle Corporazioni; altre nelle quali l'affermazione di un signore condusse a sottrarre alle Arti qualsiasi prerogativa in grado di minacciarne l'autorità (Milano in età viscontea) o portò addirittura alla loro soppressione (è quanto avvenne a Ferrara nel 1287); altre ancora — è il caso di Venezia — in cui non un signore, ma un'oligarchia mercantile confinò le funzioni delle Corporazioni su un piano esclusivamente produttivo, subordinandole agli interessi dello Stato.
Significativi mutamenti si ebbero, a partire dal Trecento, con la formazione, intorno ai maggiori Comuni dell'Italia centro-settentrionale, di unità territoriali più ampie e poi di veri e propri Stati regionali, perché le Corporazioni delle terre soggette videro talvolta sancita la propria subordinazione alle rispettive Arti della dominante. Come mostra il caso fiorentino, l'applicazione del principio generale non fu peraltro univoca: con l'inglobamento di città di medio e grosso rilievo economico esso subì deroghe e aggiustamenti dettati dalla natura delle relazioni complessive instaurate volta per volta tra la Repubblica e le comunità assoggettate. Cosi, mentre in centri quali San Gimignano, San Miniato, Montepulciano, Prato, le locali organizzazioni professionali non furono assoggettate a quelle fiorentine, un comportamento opposto fu adottato rispetto a Cortona e a Pisa. Nel caso pisano le forme della dipendenza variarono a seconda delle singole Arti, arrivando talvolta a comprendere, per gli artifices della città tirrenica, clausole pesanti quali il riconoscimento della funzione di "capo" alle Corporazioni fiorentine, il trasferimento a queste ultime di una parte delle entrate, la prerogativa dei loro Consoli di servire da magistrati d'appello nei processi svolti in sede locale.

GUERRA AL LAVORO NERO
Nel 1506 Albrecht Dürer scriveva di essere stato multato tre volte a Venezia per avere lavorato illegalmente. In quanto forestiero, infatti, i suoi diritti di dipingere e vendere le proprie opere erano limitati dalla locale Corporazione dei pittori, che doveva prioritariamente tutelare gli interessi dei propri soci veneziani. Quale che fosse l'opinione del grande artista tedesco, si trattava di un comportamento del tutto normale. La difesa del monopolio di esercizio del mestiere contro i non iscritti era la prima e più generale preoccupazione di ogni Corporazione, anche se non sempre questa disponeva della forza necessaria per attuarla.

CONCORRENZA SLEALE
Chi, per cosi dire, "lavorava in nero" costituiva un potenziale pericolo per tutti i soci, perché praticava tariffe più basse e di conseguenza sottraeva clienti ai maestri; inoltre forniva probabilmente prodotti e servizi di livello inferiore, venendo meno a un altro dei principi guida della politica economica delle Arti, ossia la tutela della qualità. Il fenomeno, malgrado l'impegno normativo e anche repressivo dei vertici corporativi, sembra essere stato tutt'altro che marginale e comunque in crescita a partire dalla fine del Duecento, epoca in cui molte economie cittadine entrarono in una fase di stagnazione o di recessione e l'accesso ai ranghi delle organizzazioni di mestiere divenne meno automatico. Raccogliere dati quantitativi su questi aspetti è molto difficile, ma almeno in un caso — quello dell'Arte della Lana fiorentina nell'ultimo Trecento e nella prima metà del Quattrocento — sappiamo che l'esercizio del mestiere senza immatricolazione risultava al primo posto nella lista dei reati puniti dal tribunale corporativo.
Il punto di vista delle Corporazioni non era sempre condiviso dall'autorità pubblica, che, soprattutto in relazione ai beni di largo consumo (prodotti alimentari innanzitutto, ma spesso anche materiali edilizi), agiva in modo da rafforzare il più possibile l'offerta sul mercato e da mantenere bassi i prezzi. Da qui l'insorgere di contrasti che assunsero in qualche caso toni assai aspri. Nel 1287, per esempio, il Comune di Siena vietò ai fornai di avere un rettore o un'Arte, e disposizioni analoghe vennero adottate nel 1297 per i macellai e nel 1300 per i mugnai. Nel maggio 1305 si giunse addirittura a bandire tutte le Corporazioni cittadine eccetto l'Arte della Lana e la Mercanzia, con la motivazione che la loro azione metteva in pericolo «il buono, tranquillo e pacifico stato della città». Il provvedimento venne tuttavia ritirato meno di due mesi dopo.
Un secondo caposaldo dell'azione delle Arti era la tutela dell'uguaglianza economica tra i membri. Per quanto profondamente gerarchizzate al loro interno, sia per la disparità delle condizioni economiche degli iscritti, sia per l'esistenza della classica tripartizione in "maestri", "apprendisti" e "lavoranti", le Corporazioni svolgevano tuttavia una politica volta a mantenere tra i loro immatricolati il maggiore equilibrio possibile. Era un indirizzo che esprimeva la volontà di un reciproco controllo e al tempo stesso un'esigenza di stabilità alla quale era sotteso il timore che l'organizzazione della produzione e del commercio si trasformasse in altre e più complesse forme. Le misure attraverso le quali si concretava quest'obiettivo generale erano varie. Era vietato sottrarre lavoro o manodopera a un compagno, tenere più di un certo numero di dipendenti e talvolta di strumenti, acquistare quantità eccessive di materie prime e materiali ausiliari: a Venezia, per esempio, nel Trecento la Corporazione dei fabbri vietò ai propri aderenti di fare incetta di carbone. Una vigilanza speciale era anche dedicata al controllo delle innovazioni nei modi di produzione, che avrebbero potuto creare situazioni di privilegio a vantaggio di singoli o di gruppi.

CONTROLLI DI QUALITÀ
Fra le priorità della politica economica delle Arti vi era infine la già evocata disciplina a tutela della qualità dei manufatti prodotti e dei servizi erogati, che costituiva uno dei moventi principali della dilatazione della legislazione corporativa. Minutissime norme, che riguardavano le materie prime, gli strumenti di lavoro e i procedimenti tecnici utilizzati erano infatti previste dagli statuti e frequentemente aggiornate attraverso l'attività legislativa dei Consoli e del Consiglio. La stesura di questi regolamenti rispondeva a un'esigenza fortemente sentita nella società bassomedievale, che attribuiva la grave e infamante etichetta di falsitates ai reati di adulterazione: «El terzo modo di peccato», predicava Bernardino sul Campo di Siena nel 1427, «è falsità, di falsare le mercantie, mostrando il gattivo col buono; e dice poi: egli è tutto buono». Infrangere le norme sulla qualità significava ingannare il cliente e al tempo stesso tradire la Corporazione, macchiarne la buona fama. Ecco perché gli articoli fabbricati in violazione delle regole erano dichiarati falsi, allo stesso titolo della moneta falsa, e i contravventori puniti con pesanti pene.

I SEGRETI DEL MESTIERE
Non meno decisivo, per l'autoriproduzione del sistema corporativo, era il controllo sulla formazione dei nuovi maestri, realizzata attraverso il peculiare istituto dell'apprendistato. Sulla base di un contratto stipulato fra il titolare della bottega e il padre dell'apprendista, ma modellato su una serie di norme dettate dalla Corporazione, quello che spesso era poco più di un bambino si trasferiva alle dipendenze del maestro per un certo numero di anni. La sostanza dell'accordo stava da un lato nell'impegno dell'artigiano a insegnare lealmente al discepolo i segreti del mestiere e a mantenerlo, dall'altro nella promessa di quest'ultimo di imparare volenterosamente, di risiedere regolarmente con il maestro, di obbedirgli eseguendo ogni compito da lui stabilito. Durante il periodo di formazione l'apprendista non percepiva nessun compenso, anzi non era raro il caso, soprattutto nel XII secolo e in buona parte del XIII, che fosse il padre a dover sborsare una somma perché il figlio venisse ammesso nella bottega. Solo una volta compiuto il tirocinio previsto dai patti contrattuali, e in qualche caso superato un esame o realizzato un "capolavoro", il discepolo poteva entrare nell'Arte come maestro.
Fra maestro-docente e apprendista-discente si stabiliva dunque un rapporto complesso e sfaccettato, che non si configurava solo come trasferimento di uno specifico sapere tecnico, ma anche come trasmissione di un sistema di valori e di modelli di comportamento. Per questo la regolamentazione corporativa in quest'ambito, se fu assai tempestiva, conservò un certo grado di elasticità, necessaria per consentire gli adattamenti imposti dalle fluttuazioni del mercato del lavoro. Ne è una testimonianza eloquente la disciplina della durata dell'apprendistato, che, così com'era regolamentata dagli statuti delle Arti, variava secondo i mestieri, i luoghi, l'età dei discepoli, e in una stessa città anche secondo le epoche. A Bologna, per esempio, per divenire barbiere occorrevano 3 anni di tirocinio nel 1320, ma solo 2 anni nel 1376; per essere calzolaio 4 anni nel 1258, 5 nel 1327; per raggiungere il grado di maestro spadaio 7 anni nel 1283 e solo 3 nel 1378.

APPRENDISTI A VITA
Al di là delle differenze riscontrabili nella normativa, nella pratica il periodo di discepolato era normalmente più lungo di quanto sarebbe stato effettivamente necessario: era interesse dell'artigiano, infatti, prolungare la permanenza dell'apprendista nella sua bottega, perché, una volta completata la sua formazione, questi era un valido aiutante a basso costo. Tale tendenza si accentuò a partire dalla fine del Duecento, quando, in corrispondenza con l'ingrossarsi delle fila degli aspiranti artifices, le possibilità di un immediato passaggio dal rango di apprendista a quello di maestro tesero a diminuire. Si diffuse allora in molte città la pratica di corrispondere una retribuzione ai discepoli con una certa "anzianità" di lavoro. In questo modo, però, la loro figura veniva a essere avvicinata a quella dei semplici "lavoranti" o "sottoposti", ossia a coloro che, pur avendo ormai abbondantemente terminato il loro tirocinio, si guadagnavano stabilmente la vita come salariati, senza alcuna speranza di diventare un giorno titolari di una bottega.
Un esempio interessante di queste dinamiche ci viene da Piacenza, studiata da Roberto Greci utilizzando una serie di contratti stipulati fra il 1275 e il 1303. Qui l'evoluzione in senso salariale del rapporto di apprendistato interessò innanzitutto il settore tessile, che a partire dalla metà del XIII secolo aveva assunto la configurazione di un’industria più decisamente subordinata al capitale mercantile e operante in funzione di un mercato regionale; ma essa è tuttavia riscontrabile in numerose altre branche dell'artigianato locale. II fenomeno era così rilevante che trovò un'eco nella stessa normativa, dove, a una data che é difficile da precisare ma comunque assai precoce, comparve la distinzione fra i fanticelli ad discendum e i fanticelli de mercedibus. I primi venivano assunti per non meno di 4 anni e non ricevevano alcun compenso, i secondi si legavano al maestro per almeno un anno con una remunerazione che non poteva eccedere i 24 soldi piacentini annui. Mentre i fanticelli ad discendum erano effettivamente avviati all'apprendimento del mestiere, i fanticelli de mercedibus venivano utilizzati in compiti ausiliari, come, presso i mugnai, portare grano e la farina in città o custodire il mulino. Solo ai veri apprendisti veniva consentito (almeno in teoria), al termine del tirocinio, di accedere alla maestranza e alle cariche del paratico. Verso la fine del secolo la normativa statutaria cominciò a comprendere in un'unica categoria i due gruppi di fanticelli e nei contratti si registrò un'assimilazione crescente fra quelli ad discendum e quelli ad operandum, con il maestro che era tenuto a retribuire il bambino o il ragazzo a seconda del periodo convenuto, della preparazione e dell'attività svolta.

LAVORO IN ESCLUSIVA
La "salarizzazione" di quello che in origine non si presentava come un contratto di lavoro, ma come una prestazione di servizi di cui l'insegnamento fornito dal maestro costituiva l'aspetto qualificante, era la spia di cambiamenti importanti nella realtà economico-sociale che l'organizzazione corporativa si sforzava di inquadrare. Se perfino gli apprendisti venivano retribuiti con un compenso monetario significava che il lavoro salariato era divenuto ormai la forma normale dei rapporti di lavoro all'interno della bottega; se inoltre essi restavano tali per lunghissimi periodi di tempo ed erano destinati, anche una volta formalmente raggiunto il grado di maestri, a divenire lavoratori subordinati perché impossibilitati a pagare le alte tasse di immatricolazione che la Corporazione richiedeva o a investire nell'apertura di una bottega, significava che l'esperienza formativa dell'apprendistato e la stessa organizzazione corporativa del lavoro avevano perso molte delle loro originarie finalità.
Mutamenti anche più rilevanti, del resto, si venivano producendo fra Due e Trecento sotto la spinta del progressivo concentrarsi di ricchezza e potere nelle mani di un ceto di mercanti-imprenditori che investivano quantità crescenti di capitali, dominavano il mercato, utilizzavano una manodopera salariata sempre più numerosa. II fenomeno era particolarmente evidente nei centri tessili dell'Italia centro-settentrionale (Milano, Como, Verona, Firenze, Lucca, Prato), dove molti artigiani indipendenti (filatori, tessitori, tintori, ecc.), per non scomparire, furono costretti a divenire parte del nuovo meccanismo produttivo creato dai lanaioli, dai setaioli, dai cotonieri, a lavorare esclusivamente per loro. Spesso conservarono i propri mezzi di lavoro, i propri laboratori, la sensazione di essere liberi: ciononostante dipendevano dagli imprenditori, proprietari del prodotto che essi trasformavano, padroni di fissare i compensi come di dare o di sottrarre loro il lavoro. Sempre più decisamente lavoratori "a fase", gli antichi maestri si trasformarono in un ceto non molto diverso da quello dei salariati. Sul piano corporativo essi finirono col perdere, con poche eccezioni, la prerogativa di riunirsi in associazioni di mestiere indipendenti e furono costretti a entrare, come membri “minori” o addirittura privi di diritti, nelle organizzazioni create e monopolizzate dai mercanti-imprenditori: le varie Arti della Lana e della Seta nelle quali l'originario spirito di uguaglianza dei primordi aveva lasciato il posto a una costruzione rigidamente gerarchica che traduceva i rapporti di potere politico ed economico vigenti nella società.

(riduzione da Franco Franceschi, Tutti per uno, in Medioevo, III, n.11, 1999)
 

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