Greci e romani davanti a scienza e tecnica
La contrapposizione più usata e ricorrente tra Greci e Romani fa degli uni il popolo della teoria e degli altri il popolo della pratica. Questa polarità ha sovente collocato i Greci sotto l'insegna della scienza e i Romani sotto quella della tecnica. Ciò significa che i primi avrebbero perseguito prevalentemente forme di sapere disinteressato, mentre i secondi avrebbero mirato prevalentemente all'impiego pratico e immediato di ogni forma di sapere, scartando dai loro interessi tutto ciò che non era suscettibile di un tale impiego. Come tutte le contrapposizioni rigide, anche questo, pur fondandosi su elementi di fatto, è sommario e generico. Ma soprattutto è infondato il presupposto implicito o esplicito, che sovente l'ha sorretto, di una base etnica o nazionale o psicologica, che spiegherebbe il diverso sviluppo e la diversa configurazione del sapere presso i due popoli.
In realtà la cultura greca e la cultura romana, almeno a partire da un certo momento, non si costituiscono lungo vie del tutto indipendenti.
La cultura romana viene invece formandosi in precise condizioni, che hanno alle spalle il dominio di Roma nei confronti di gran parte del mondo allora conosciuto e, al tempo stesso, una storia del sapere scientifico greco di ormai lunga durata.
Dal III secolo a. C. in poi le scienze particolari e la riflessione filosofica si erano tendenzialmente separate, stabilendosi anche geograficamente in sedi diverse: le scuole filosofiche ad Atene, le discipline scientifiche ad Alessandria. Ciò non significa che le scienze tacessero fuori di Alessandria: basti pensare alla Siracusa di Archimede o a Pergamo o a Rodi, dove avrebbe operato l'enciclopedico Posidonio, così influente su vaste porzioni della cultura romana.
Ma il punto di riferimento — soprattutto per le discipline matematiche — fu Alessandria. Il fatto più rilevante è che sul terreno delle scienze matematiche si era venuta costituendo una vera e propria «comunità» scientifica, che cercava i propri interlocutori soltanto in altri matematici, ai quali esporre le proprie scoperte o sottoporre i propri problemi, e non in un vasto pubblico colto, al quale si erano indirizzati e ancora si indirizzavano i filosofi. L'accettazione del modello dimostrativo euclideo aveva consentito alla geometria di costituirsi come un sapere che cresce su se stesso, liberandola dalle ingerenze del potere, dalle interferenze filosofiche o dalle esigenze di applicazione immediata. Ma ciò l'aveva anche tenuta alle soglie di un riconoscimento pubblico della sua importanza. Nell'antichità la figura dello scienziato come personaggio a cui sia riconosciuta una priorità rispetto al filosofo non è mai nata. Il costo che risultava da questa situazione era la marginalità del sapere matematico nelle sue punte alte rispetto ad altre forme di sapere e alla cultura in generale. Ma anche a livello di istruzione elementare lo spazio lasciato alle matematiche nell'età ellenistica era estremamente esiguo.
Quando dunque si parla di disinteresse dei Romani per le matematiche, ossia per le scienze teoriche per eccellenza, occorre tener conto più che di una loro presunta indole pratica, della divaricazione ormai avvenuta tra matematica e filosofia. Diversamente da quanto avveniva per la medicina o per l’architettura, i destinatari del discorso matematico erano ormai un’area molto ristretta e ben caratterizzata. Non esisteva dunque alcuna ragione per dover ricomporre su questo piano una divisione del lavoro culturale con i Greci, che avevano portato le matematiche a questo punto di specializzazione. Il problema per la cultura romana si poteva porre sul piano della produzione letteraria o anche filosofica oppure su quello del sapere teorico, ossia nei punti dove l’egemonia culturale delle classi dominanti romane poteva subire delle pericolose interferenze, ma non sul piano della prosecuzione delle indagini matematiche e scientifiche e tanto meno della loro revisione. Queste erano ormai faccende di pochi e avevano trovato nel greco un linguaggio ben codificato. È significativo che gli Elementi di Euclide dovettero forse aspettare Boezio per essere tradotti in latino. Quando fu ancora coltivata la matematica, ciò avvenne altrove che a Roma: la maggiore isola di sopravvivenza continuò a essere Alessandria. L’unico territorio di impiego di una geometria molto elementare nella cultura romana fu nell’opera degli agrimensori. Ma era una geometria che aveva ben poco in comune con quella di Euclide.
La tendenza dei dominatori romani a sfruttare le produzioni culturali greche lasciò quindi sostanzialmente intatte le matematiche e le discipline ad esse imparentate, come l'astronomia matematica. Del resto esse avevano ormai raggiunto un tal grado di complessità, che per coltivarle adeguatamente non bastava un generico dilettantismo praticato nei momenti d'ozio lasciati liberi dalle cariche politiche o militari. Questo poteva trovare più agevole spazio nella riflessione filosofica o nella osservazione e catalogazione dei fenomeni naturali, soprattutto attraverso la mediazione della tradizione scritta. Nel II secolo d. C. Galeno ci testimonia in maniera assai chiara l'indifferenza, se non l’ostilità, per ogni forma di sapere matematico da parte del suo pubblico. L’autoisolamento delle matematiche appariva quindi direttamente proporzionale alla resistenza opposta ad esso dal pubblico romano colto.
L'aritmetica era invece recuperata all'interno di discorsi filosofici più generali, che avevano ben altra presa di un trattato di geometria. I numeri si caricavano di poteri e valenze simboliche e si slegavano da ogni rapporto con le procedure di calcolo di mercanti o artigiani. Essi erano la porta d'accesso alla conoscenza del divino, la propedeutica alla teologia, come avrebbero teorizzato i neo-platonici (e, in ambiente cristiano, si veda l'importanza che alla simbologia dei numeri è attribuita dall'Apocalisse di Giovanni).
L'intellettuale romano che in qualche modo si occupa di temi «scientifici» ha poco in comune con l'intellettuale alessandrino. Il latino anche per i greci era in primo luogo la lingua del potere statale e dell'amministrazione. Il fatto stesso di scrivere in latino implica immediatamente che i destinatari sono diversi da quelli dei ricercatori di Alessandria. Anche quando si occupa di argomenti scientifici o tecnici, l'intellettuale romano non scrive per una ristretta cerchia di dotti. Ciò significa che il problema della novità delle ricerche o dei risultati non assume priorità né rilevanza centrale.
Il problema essenziale è piuttosto costituito dall'esigenza di far circolare il già saputo, il già trovato, ossia di estendere l’area di consumo del sapere piuttosto che di incrementare il sapere dal suo interno. È facilmente constatabile che la dominante della produzione «scientifica» e «tecnica» latina si afferma in progetti di enciclopedie o al massimo nell'elaborazione di manuali utilizzabili professionalmente. Ciò non significa che all'interno enciclopedie e manuali non contengano anche contributi personali dei loro compilatori. Ma l'essenziale della loro opera non era questo né era questo il loro intento fondamentale. In ogni caso le matematiche non sembravano avere figure professionali come destinatari.
Il pubblico della manualistica latina era costituito piuttosto da proprietari terrieri interessati all’amministrazione e al funzionamento del proprio fondo o architetti coinvolti soprattutto in età imperiale nelle opere pubbliche e nell'edilizia privata soprattutto delle classi alte o cittadini interessati a non abbandonarsi in completa ignoranza nelle mani dei medici, in altissima maggioranza greci, o funzionari addetti alla sovrintendenza e alla manutenzione delle opere pubbliche o all'erogazione del fabbisogno idrico per le città.
Ciò comportava la produzione di una letteratura tecnica, che assumeva la veste non di un trattato in cui consegnare nuove scoperte o un nuovo modo di sistemare e organizzare logicamente aree del sapere, alla maniera di Euclide o Archimede o Aristarco di Samo, ma di manuali nei quali compendiare ed esporre in maniera più o meno esaustiva gli ingredienti essenziali per l'esecuzione delle operazioni tecniche nei singoli settori.
Questo spiega come la distanza tra questi manuali e la letteratura enciclopedica non sia affatto grande: in entrambi i casi si trattava di rendere edotti dello status di una o più aree del sapere, anche se in un caso i destinatari erano soprattutto coloro che professionalmente o direttamente utilizzavano questi blocchi di conoscenze, mentre nell’altro erano un pubblico genericamente colto, mosso dalla semplice curiosità o da obiettivi di edificazione morale o di formazione culturale raggiungibili attraverso l'acquisizione e l'approfondimento delle conoscenze.
In altri termini, la produzione manualistica o enciclopedica degli scrittori latini intende sempre assumere una funzione che vada oltre gli ambiti strettamente delimitati dei singoli campi del sapere. Anche quando ci troviamo in presenza di raccolte di meraviglie della natura, come nel caso di Plinio il Vecchio, o di un atteggiamento teoretico verso la natura, come talora in Seneca, tutto ciò si accompagna sempre, in maniera più o meno armonica o conflittuale, con finalità che si collocano al di là di una ricerca che abbia il proprio obiettivo soltanto in se stessa e non anche nella proposizione di valori e atteggiamenti e prese di posizione nei confronti della società del tempo.
Anche quando l'unico movente sembra il gusto per il repertorio delle meraviglie della natura o la contemplazione dell'ordine finalistico del mondo, non si riscontra l'atteggiamento radicalmente disinteressato della dimostrazione di un teorema unicamente per se stesso.
II fatto è che la cultura romana nacque legata al dominio del mondo e fu prevalentemente una cultura interessata a dettare le regole per quanto era suscettibile di uso e quanto doveva essere respinto. Per molto tempo la filologia e la storiografia moderne sono andate alla ricerca delle fonti greche degli scrittori latini. Ma è chiaro che la ripresa dei modelli greci non avveniva meccanicamente, ma implicava procedure di esclusione e di correzione, che venivano a mutare decisamente il segno di questi modelli. Ed è ovvio che dipendeva dalla situazione storica e culturale, nel variare dei suoi momenti, la determinazione o la possibilità dell'emergere di criteri guida per l'utilizzazione del materiale greco. Ciò non significa che la cultura romana fosse in preda alla ripetizione e passività, come un certo classicismo ha voluto sostenere. Anche in rapporto ai punti di riferimento greci le produzioni culturali romane trovano nel loro tempo i criteri di esplorazione e di esclusione.
Rimase comunque fondamentalmente assente in questi processi di condizionamento della produzione culturale latina la considerazione dell'utilità sociale della scienza e delle sue applicazioni tecniche, anzi della possibilità di una saldatura tra indagini scientifiche e tecnica e di un conseguente impiego sistematico delle innovazioni tecniche nella produzione economica. Ma questo era un tratto comune anche alla cultura greca: lo scienziato come figura socialmente utile sarebbe emersa solo in un diverso ambito di svolgimento e considerazione delle attività produttive e in una diversa concezione della funzione degli strumenti tecnici e di misurazione nella stessa ricerca scientifica.