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Scienza e tecnica nell'età ellenistica

Nel mondo greco è diffuso l’atteggiamento di disprezzo per le attività manuali  di filosofi e uomini di cultura, così come viene spesso ribadita la superiorità della vita contemplativa rispetto alle attività pratiche e produttive.
Esiste un nesso strutturale tra questi atteggiamenti e il mancato sviluppo tecnologico tipico del mondo greco ?
Su questo tema esiste una vastissima letteratura, in questa sede ci limitiamo a presentare due testi che da differenti punti di vista, cercano di rispondere al perché in epoca ellenistica, pur in presenza di raffinati presupposti scientifici e tecnici, non si sia realizzato un processo di sviluppo tecnologico verso il macchinismo, ma si ebbe anzi un blocco dello sviluppo tecnico.
Nel primo brano Merker attribuisce la scarsa utilizzazione delle conoscenze tecniche dell’epoca alessandrina nelle attività produttive alla sopravvalutazione della teoria sulla pratica, al preminente impiego di schiavi nelle attività manuali ed al disprezzo per queste attività.

Nel secondo testo Ritti descrive le realizzazioni tecniche dell’epoca ellenistica in numerosi ambiti ed insieme la mancata applicazione produttiva di conoscenze teoriche in alcuni casi molto avanzate, Ella afferma che il peso della tradizione speculativa, la presenza di manodopera a buon mercato, la mancanza di quadri tecnici e la difficoltà ad assumere gli alti costi per l’impianto di macchinari sono all’origine del mancato macchinismo.

Nel I sec. d. C. Erone Alessandrino, considerato il maggiore ingegnere dell'antichità e fondatore, presso il Museo, di una scuola di meccanica, scriverà in un suo trattato di balistica: «La parte maggiore e più necessaria della saggezza universale è quella che tratta della pace dell'anima sulla quale i filosofi hanno svolto e svolgono quasi tutte le speculazioni [...] La meccanica tuttavia trascurò le speculazioni teoriche sulla tranquillità dell'anima ed insegnò a tutti gli uomini la scienza di vivere con l'anima in pace mediante quella piccola, minima parte di essa, che tratta della costruzione di catapulte».
Questi enunciati riassumono bene la doppia caratteristica che le scienze hanno nell'età ellenistica: da un lato il loro farsi indipendenti dalla filosofia, con una separazione da quest'ultima dovuta al crescente affermarsi delle specializzazioni tecniche le quali assegnavano ad ogni scienza un ambito preciso di competenze, e dall'altro il fatto (di cui è indizio l'accento poste sulle catapulte) che il progresso tecnologico non si indirizzò verso applicazioni pratiche rivolte alla produzione industriale come le intenderemmo in senso moderno, bensì verso settori molto più ristretti. Erano, questi, la costruzione di macchine belliche utili a un potere politico che aveva connotati essenzialmente militari, l'invenzione di sistemi di leve e pulegge nell'edilizia, e di meccanismi per il drenaggio delle acque nelle miniere. L'intuizione, presente in Erone, del vapore come forza motrice non andò al di là di una applicazione a congegni che servivano a divertimenti soltanto intellettuali o a scopi di culto (ai quali era destinata una sua combinazione di macchina idraulica e a vapore che consentiva l'apertura e chiusura automatica, «miracolosa» per gli sprovveduti, delle porte del tempio). La separazione fra concezione generale dell' universo (o «saggezza universale» ovvero filosofia secondo il passo di Erone) e ambiti delle scienze particolari si riprodusse nella separazione fra l'ideale della scienza come tale e le applicazioni pratiche su di essa. Archimede di Siracusa (287-212), il più grande matematico dell'antichità, scopritore delle leggi dell'idrostatica e del principio del peso specifico dei corpi, che soggiornò a lungo ad Alessandria e nella difesa di Siracusa contro gli assedianti romani ebbe poi un ruolo importante con le macchine belliche da lui inventate, considerava queste ultime poco più di «piacevoli applicazioni secondarie della geometria». Plutarco (46-120 d. C., che riferisce ciò nella sua celebre opera biografica Vite parallele, aggiunge: «il suo spirito era attratto soltanto da quelle scienze nelle quali il bello e il buono hanno un valore in sé e per sé e che non servono alle necessità materiali degli uomini» […]
Anche in queste già acquisite sopravvalutazioni della teoria rispetto alle applicazioni pratiche e tecnico-produttive si erano sedimentati, a livello di riflessione filosofica, gli atteggiamenti di svalutazione del lavoro manuale e il ruolo subordinato assegnato alla tecnica che erano peculiari di una società dove il lavoro tecnico era per lo più affidato agli schiavi e il libero cittadino disprezzava perciò l'attività manuale. E poiché nel periodo ellenistico la mano d’opera di schiavi era cresciuta di molto, quegli atteggiamenti si trovarono automaticamente rafforzati.
Pur all'interno di questo quadro, tuttavia chi come Archimede svolgeva un lavoro effettivo di produzione di scienza non poteva esimersi da fare conti, in sede di metodo, anche con il mondo del particolare ovvero della meccanica e dunque della ricerca sperimentale. Nello scritto metodologico sui teoremi meccanici, da lui inviato all'amico geografo Eratostene, vagliò sì la «possibilità di considerare questioni matematiche per mezzo della meccanica», cioè ricorrendo alla via dell’esperimento. Sennonché precisava poi subito che «alcune delle proprietà che a me dapprima si sono presentate per via meccanica, le ho più tardi dimostrate per via geometrica», proprio perché la ricerca compiuta per mezzo dell'esperimento non è una vera dimostrazione. Questa deve restare affidata unicamente alla teoria, in sé autosufficiente e da non contaminare con elementi empirici
Il vero modello rimaneva insomma. essenzialmente racchiuso nella pura deduzione concettuale, un procedimento di rigida concatenazione fra i principi indimostrabili (definizioni, postulati e assiomi) e ragionamenti discorsivi che ne dipendono. L'aveva messo in atto, una generazione prima di Archimede, il matematico Euclide (ca. 330 - 260), membro del Museo alessandrino dopo essere stato probabilmente un allievo di Platone. I suoi tredici libri di Elementi di geometria diedero organicità e consequenzialità logica al patrimonio delle conoscenze matematiche esistenti, raccogliendole in un sistema di deduzioni da assiomi e in tale forma consegnandole a un insegnamento della geometria elementare che su quei fondamenti è largamente basata ancora oggi.
Il procedimento euclideo poggiava sulla necessità concettuale per cui, posto un assioma, si possono dedurre da esso soltanto corollari conseguenti e che non lo contraddicono. Una tecnica argomentativa fu perciò in Euclide, che la desunse dalla scuola eleatica, la dimostrazione per assurdo, mediante la quale, partendo da una premessa contraria a quella da dimostrare, veniva messa in evidenza l'assurdità delle conseguenze di essa. Ma se questo metodo andava bene in matematica e geometria, più spinosa era la questione per quel che riguardava la fisica, dove non tanto e non solamente si trattava di suffragare con prove deduttive una verità già esistente, quanto invece di scoprire verità nuove procedendo dal noto all'ancora ignoto con accorgimenti che consapevolmente cambiassero il consolidamento assiomatico-deduttivo del sapere con gli allargamenti dell'orizzonte empirico da operare mediante l'induzione.
Questa soglia, al di là della quale c'è la teoria del metodo sperimentale, non venne varcata dalla fisica antica. Mancavano, a ciò, adeguati stimoli che provenissero da esigenze tecnico-produttive della società.
(da AAVV, Storia della Filosofia, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma, 1984)

Si era capito come utilizzare alcuni principi della scienza avanzata: lo sfruttamento della spinta dell’aria compressa portò a creare oltre ad ordigni bellici, anche lo spruzzatore automatico antincendio, il sifone a forma di mantice per lo svuotamento di fontane e bacini, l'organo idraulico e, infine, numerosi oggetti passatempo: un rhytón musicale, vasi che si vuotavano e riempivano da soli, ecc. Analogamente, la scoperta della dilatazione dell'aria riscaldata servì a ottenere, accanto al termoscopio, meccanismi giocattolo, con i quali si facevano muovere le figurine dei teatri meccanici, o si aprivano le porte di un tempietto accendendo il fuoco sopra un piccolo altare davanti ad esso. Anche la forza di espansione del vapore acqueo fu utilizzata, a quanto pare, solo per un giocattolo: una sferetra dì bronzo rotante. Le scoperte scientifiche non furono quindi applicate nella loro totalità per raggiungere obiettivi economici. La nostra mentalità moderna può essere turbata nel vedere scoperte fondamentali, come quella del vapore o dell’aria compressa, utilizzate per realizzare oggetti che servivano da passatempo o, al massimo, modelli di macchine da guerra forse non mai costruite. Stupisce vedere quanto poco sia interessante, per gli uomini dell'Ellenismo, la ricerca di nuove fonti di energia, dato che non si provò ad usare la nafta, che pure era nota, né qualità di carbone come l'antracite. L'uso stesso dell'acqua come forza motrice dei mulini fu introdotto solo alla fine del periodo e rimase a lungo sporadico. È molto improbabile, come qualcuno ha pensato, che i governanti stessi abbiano temuto — come è detto di Vespasiano a Roma — di creare disoccupazione introducendo nuovi macchinari: la situazione sociale ed economica di regni come quello tolemaico non aveva nulla in comune con quella di Roma imperiale, né con quella dell'Inghilterra al tempo della Rivoluzione industriale.
Sì possono ricordare altri fattori. Da un lato è indubbio che gli scienziati dell'epoca — un Archimede, per esempio — non si occuparono di ricercare o segnalare le implicazioni pratiche delle loro scoperte; non che essi si rifiutassero dì concretarle materialmente: Archimede fornì le istruzioni per la costruzione di un planetario e, nella sua opera Sul metodo, ammetteva che alcune cognizioni teoriche si potevano meglio dimostrare dopo averle ottenute con l'aiuto di espedienti empirici. Esiste però tutta una tradizione speculativa — che da Platone discende fino a Plutarco — secondo la quale lo scienziato deve rifiutare di occuparsi di problemi strettamente tecnici. giacché essi sono indegni di lui. Ciò fu detto anche a proposito di Archimede, che pure si può obiettare introdusse l’uso della kochlías nell'irrigazione del Delta egiziano e — sia pure sotto la pressione delle circostanze — inventò le macchine belliche usate dai Siracusani in difesa della città.
Il disinteresse venato di disprezzo di alcuni scienziati verso le realizzazioni tecniche, oltre che meno pronunciato di quanto Plutarco voglia mostrare, non avrebbe comunque potuto porre, da solo un freno alle applicazìoni pratiche delle nuove scoperte, se queste applicazioni fossero state possibili. Nell'ambito della società ellenistica — soprattutto di quella egizia, dato che in Alessandria avvennero i maggiori progressi scientifici e le loro poche applicazioni pratiche — il passaggio dal trattato di fisica o dal modellino giocattolo alla macchina trovava invece ostacoli gravissimi.
In primo luogo, la mano d'opera umana (schiavi e liberi) e animale era abbondante e quindi a buon mercato; in secondo luogo, l'impianto di macchinari sarebbe stato estremamente costoso, per le difficoltà di costruzione e manutenzione, e perciò insostenibile da piccoli e medie imprese, nella generale scarsità di capitali. La spinta a sostituire il lavoro umano e animale con le fonti energetiche indicate dai fisici e dagli ingegneri sarebbe potuta partire dalla classe di latifondisti e grossi industriali, ma la conduzione delle grandi aziende, dove esse esistevano, era in mano a imprenditori che non capivano la possibile applicazione pratica dei principi delle macchine giocattolo illustrate nei trattati tecnici, o non ne trovavano convenienza. Né c'era una categoria di tecnici che potesse fungere da intermediaria tra scienziati e produttori, o forse anche capace di realizzare su larga scala le nuove tecniche.
(da Scienza e Tecnica in Storia e Civiltà dei Greci, vol. IX, La cultura Ellenistica Filosofia, Scienza, Letteratura, Bompiani, Milano 1977)

 

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