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Il sistema di produzione del mondo greco-romano e la schiavitù

Sul problema della schiavitù nel mondo antico esiste una bibliografia vastissima, giacché la sensibilità sociale e umanitaria tipica della nostra epoca ha indotto gli studiosi a prestare particolare attenzione a questo istituto, per noi così difficile da comprendere e da accettare. Le interpretazioni in proposito, pur seguendo i più diversi orientamenti, sono spesso caratterizzate da una forte impronta ideologica, a motivo della delicatezza dell'argomento: l’accettazione dell'una o dell'altra interpretazione influisce quindi fortemente sul modo di intendere e di presentare la civiltà antica.
Alcune di queste interpretazioni sono state ampiamente volgarizzate, per l'interesse che il problema suscita oggi, e sono ormai rifluite nella didattica storica, soprattutto attraverso i manuali per le scuole superiori, con esiti non sempre soddisfacenti. Vale perciò la pena di puntualizzare brevemente, ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività, alcuni fondamentali aspetti problematici a proposito dei quali troppo spesso ricorrono affermazioni apodittiche e luoghi comuni.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze — le quali, è bene ricordarlo, non sono certo ampie per quanto riguarda le condizioni economiche e sociali del mondo antico — possiamo affermare che la schiavitù è un istituto presente nella totalità delle società antiche, sia nella forma della schiavitù vera e propria, sia in quelle svariate forme di limitazione della libertà personale e di lavoro coatto (l'ilotismo, il colonato) che si è soliti definire, con termine anacronistico di «servitù della gleba».
E’ vano perciò tentar di dimostrare, o peggio ancora affermare dogmaticamente, l'esistenza di società che non conoscevano la schiavitù e il cui assetto economico fosse caratterizzato da «modi di produzione» che non utilizzavano il lavoro servile.
Il fatto che la nostra informazione, buona in alcuni casi (per esempio per quanto riguarda la società greca e romana), sia assai carente in molti altri non deve indurci a concludere che la schiavitù fosse limitata solo ad alcuni ordinamenti economico-sociali ed ignota ad altri. Non ci sono elementi per negare che l'esistenza di individui ridotti in schiavitù sia un dato comune a tutte le grandi civiltà mediterranee. La schiavitù, perciò, non ha alcun rapporto necessario con l'adozione di particolari sistemi di produzione o con il raggiungimento di determinati livelli di sviluppo economico: la sua esistenza è, semplicemente, un dato strutturale delle società antiche e l'esito di una mentalità generale.
Oggi è diffusa la tendenza a considerare gli schiavi come una classe omogenea, una sorta di sottoproletariato accomunato da analoghi problemi di sfruttamento; va detto, invece, che essi non costituivano affatto una categoria unitaria e che anzi esistevano, tra i diversi gruppi, differenze di classe molto marcate.
Ciò che gli schiavi hanno in comune è essenzialmente lo status, la condizione giuridica, e cioè il fatto di essere proprietà: ma non è possibile fare alcuna affermazione di carattere generale sulle loro condizioni economiche e sociali.
Diversa è, prima di tutto, la loro provenienza. Nel mondo greco-romano, in generale, il motivo principale che determinava la riduzione in schiavitù di un individuo era la sua qualità di prigioniero di guerra. Razzie e rapimenti ad opera di pirati interessavano soprattutto le popolazioni costiere, barbare e non; col tempo queste pratiche diedero origine ad un vero e proprio commercio di schiavi le cui dimensioni variano da epoca ad epoca. Anche l’abitudine di esporre i bambini, diffusa in alcune civiltà, ma estranea ad altre, fu una fonte di approvvigionamento di schiavi.
La schiavitù per debiti, presente in età arcaica (sia le leggi di Solone che le leggi delle XII tavole ne tengono conto), scomparve presto, almeno nella sua forma più radicale, in Grecia e in Italia, rimanendo invece viva in Oriente. Infine l'allevamento di schiavi, praticato in modo diseguale nelle varie epoche e zone, poté garantire il rifornimento di manodopera servile in alternativa alle altre fonti, senza divenire mai la principale. È chiaro ora che profonde differenze dividono il cittadino libero caduto in schiavitù in seguito a cattura in guerra dal barbaro rapito e venduto dai pirati o dallo schiavo nato in casa.
In secondo luogo, le condizioni degli schiavi non presentano alcuna omogeneità né dal punto di vista del loro impiego economico né da quello della loro situazione sociale: c'è ben poco in comune tra uno schiavo pubblico, uno schiavo domestico, uno addetto al lavoro in miniera, uno schiavo impiegato in una manifattura ateniese nel V e IV sec. a.C. e infine uno dedito al lavoro agricolo in un latifondo romano del II-I sec. a.C. Si pensi inoltre al profondo abisso sociale esistente tra schiavi contadini e schiavi minatori da una parte e schiavi domestici dall'altra, per non parlare dell'enorme rilevanza sociale assunta in molti casi dagli schiavi imperiali.
Diversi erano, infine, le condizioni di vita e il trattamento: Catone non esita a consigliare, nel De agricoltura, l'applicazione dura del diritto del padrone sulla sua proprietà, mentre lo PseudoSenofonte (1, 10 ss.) rileva scandalizzato che nell'Atene della seconda metà del V sec. era impossibile distinguere gli schiavi dai liberi. Va ricordato comunque che in genere le condizioni di vita dello schiavo erano ritenute migliori di quelle del proletario libero.
Anche la cultura antica, di fronte all'esistenza di una massa di individui non liberi, sentì la necessità di interrogarsi sulle origini di un istituto che costituiva un elemento essenziale della società. La risposta che la cultura greca e quella romana diedero in proposito fu estremamente diversa. Il mondo greco arrivò, con Aristotele (Polit. I, 1, 4-5), a teorizzare la schiavitù come fatto naturale, basato sulla presunta inferiorità di natura del barbaro: lo stesso Aristotele distinse tuttavia tale schiavitù «naturale» dalla schiavitù «legale» dell'uomo di origine greca derivante dalla prigionia di guerra.
La naturalità della schiavitù non fu invece mai ammessa dai Romani: essi la consideravano come un’istituzione dello jus gentium, comune a tutti i popoli ma senza rapporto con la legge naturale (Just. Inst. I, 3,3). A questo diverso modo di considerare la schiavitù corrisponde la diversa capacità di assimilazione nei confronti dello schiavo liberato che le due società rivelano. Mentre in Grecia le manomissioni sono in genere meno frequenti e comunque lo schiavo liberato non diventa mai cittadino dello stato, ma se mai meteco o straniero residente, a Roma il liberto si integra fin dall'età arcaica nel corpo dei cittadini di pieno diritto senza subire discriminazioni sociali o politiche: le manomissioni sono così frequenti e l'integrazione così completa che la classe dirigente romana arrivò a comprendere, nei primi anni del principato di Nerone, un gran numero di persone di origine servile (Tac. Ann. XIII, 26-27). Per quanto non si trovi mai l'affermazione che la schiavitù non dovrebbe esistere, va rilevato che il mondo romano non mise mai in discussione né in teoria né in pratica il principio dell'uguaglianza naturale tra libero e schiavo.
Uno degli assiomi oggi più diffusi è quello della assoluta preponderanza del lavoro schiavile nell'organizzazione economica antica, e quindi del cosiddetto «modo di produzione schiavistico» che caratterizzerebbe l'economia greca e romana. Ma è possibile dimostrare l'effettiva esistenza di un sistema di produzione in cui l'organizzazione del lavoro fosse fondata, se non esclusivamente, almeno in prevalenza sullo sfruttamento della manodopera servile? Cominciamo col dire che le fonti non ci informano che sporadicamente sulle attività economiche in genere e in particolare sull'organizzazione del lavoro: quando lo fanno, tuttavia, si registra assai frequentemente la compresenza di lavoro libero e lavoro servile, per cui molte delle mansioni dovevano essere intercambiabili (a parte i servizi domestici, riservati agli schiavi).
Vediamo qualche esempio.
In Grecia il lavoro agricolo, laddove non esistono forme di servitù della gleba (gli iloti spartani, i pentisti tessali), è quasi completamente nelle mani dei liberi; si ritiene invece generalmente che l'attività artigiana e industriale si reggesse sul lavoro degli schiavi, soprattutto in città industriali come Atene, Megara, Corinto.
Certo l'impiego degli schiavi in attività manifatturiere doveva essere più elevato che in altri servizi: un documento di manomissione ateniese databile agli anni 349-320 a.C. (1G 112 1353-78) rivela che su 135 schiavi 71 erano impiegati in fabbrica, mentre i rimanenti erano distribuiti in minor percentuale in servizi di vario genere. Tuttavia una lista, pervenutaci per via epigrafica, delle paghe dei lavoratori impegnati nella costruzione dell'Eretteo di Atene (IG 12 374, 5-10) nella seconda metà del V sec. ci informa che, su 81 operai, 20 erano cittadini, 35 meteci e 16 schiavi; la paga percepita era, peraltro, la medesima per tutti. D'altro canto l'Eurialo di Siracusa, una delle più grandi opere di fortificazione dell'antichità, fu costruito, sotto Dionigi I, da migliaia di lavoratori liberi incentivati da paghe elevate e da premi di produzione (Diod. XIV, 18, 7-8). Persino nelle miniere, dove l'impiego di schiavi era certamente assai vasto, risulta che il lavoro libero non era ignoto (Dem. 42, 80).
Inoltre il numero degli schiavi non doveva essere così alto da permettere che la produzione si basasse esclusivamente sul loro lavoro: per l'Atene del V e IV sec. esso è stato calcolato a 20.000 unità, ca. 1/5 della popolazione totale, e la mancanza di notizie su rivolte servili rivela, oltre che una complessiva mitezza nel trattamento, l'assenza di grandi masse di schiavi.
Quanto a Roma, era assai diffusa la schiavitù domestica, e quindi l'impiego in servizi non produttivi; per quanto riguarda la produzione vera e propria si registra una vasta utilizzazione degli schiavi nel lavoro agricolo negli ultimi due secoli della repubblica, quando le grandi conquiste gettarono sul mercato grandi masse di schiavi (è, in questo periodo che si collocano le uniche rivolte servili dell'antichità, per la concentrazione degli schiavi e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita). Va notato tuttavia che la diffusione del lavoro servile nelle campagne fu determinata in gran parte dall’indisponibilità di manodopera libera a causa delle continue guerre e dalla rovina della classe agraria romano-italica: ma che tale diffusione sia più l'esito di un processo storico che la conseguenza dell'adozione cosciente di un particolare «modo di produzione» lo rivela la tendenza a frenare un simile orientamento, che risulta pienamente, per esempio, dal programma di difesa del lavoro libero presente nella riforma graccana. In ogni caso ci troviamo di fronte ad un mondo del lavoro molto articolato (si pensi anche alla presenza di lavoratori semiliberi, come i laoi nell'Oriente microasiatico), in cui appare difficile valutare la proporzione tra lavoro libero e lavoro servile. Noi non abbiamo, in realtà, una visione chiara delle funzioni della schiavitù nella società antica, ed appare perciò difficile affermare con sicurezza l'esistenza di un vero e proprio «modo di produzione schiavistico» anche per quei momenti della storia economica e sociale antica (l'Atene del V-IV sec., l'Italia del II-I sec. a.C.) in cui sí è soliti riconoscere delle «società schiavistiche» in piena regola.
L'antichità, a differenza di quanto è accaduto negli Stati Uniti del secolo scorso, non ha conosciuto tendenze abolizionistiche: la progressiva decadenza della schiavitù e la sua sostituzione con forme di servitù e di lavoro coatto, quali i laoi ellenistici e il colonato romano, non sono quindi da collegare con un rifiuto programmatico di tale istituto.
La progressiva scomparsa si determina come fenomeno storico in seguito a diverse cause: ricordiamo la fine delle conquiste militari e quindi dell'afflusso di prigionieri, l'alto costo dell'allevamento, la progressiva proletarizzazione dei liberi e quindi la maggior disponibilità di manodopera. Anche considerazioni di carattere umanitario influirono sul tramonto della schiavitù: un'umanizzazione della legislazione in materia si registra già a partire da Tiberio.
L'influenza di teorie filosofiche come lo stoicismo (Seneca) e di religioni come il cristianesimo non va esagerata, ma neppure sottovalutata. Né lo stoicismo né il cristianesimo chiesero l’abolizione della schiavitù; essi contribuirono però a mitigare la sorte personale degli schiavi e favorirono anche una diversa considerazione della schiavitù in se stessa, il primo sottolineando l'uguaglianza di natura tra liberi e schiavi, il secondo proclamando l'uguaglianza fra i figli di Dio e concedendo agli schiavi parità con i liberi nella vita delle singole comunità, anche per quanto riguarda l'accesso ai gradi superiori della gerarchia.
Credo che questa breve puntualizzazione si possa concludere con un invito ad esprimersi con cautela su questi problemi, tenendo conto del fatto che i dati in nostro possesso sono limitati e che bisogna guardarsi dal credere di poter ricostruire, in base ad essi, l'assetto economico e i sistemi produttivi del mondo antico, che sostanzialmente ci sfuggono. Ma bisognerà guardarsi, soprattutto, dall'utilizzare le nostre conoscenze sulla schiavitù per operare una demonizzazione del mondo antico, il che accade oggi sempre più frequentemente.
Per quanto l'esistenza della schiavitù sia un fatto inaccettabile per la sensibilità odierna, ciò non può e non deve servire come pretesto per esprimere un giudizio negativo globale sulla civiltà greco-romana. La civiltà occidentale ha dovuto compiere un cammino lungo ed aspro per giungere solo recentemente alla formulazione dei diritti umani: non dimentichiamo che la schiavitù è esistita in forme drammatiche ancora nel secolo scorso e sopravvive ancor oggi in zone arretrate. Il rispetto della libertà individuale è in effetti tra quei valori che si sono affermati lentamente e con estrema difficoltà nel corso della storia. È assurdo perciò sminuire l'enorme portata della civiltà greco-romana sottolineando le ombre che indubbiamente l'hanno caratterizzata — né poteva essere diversamente, dato il limite che ogni esperienza storica implica — ed ignorando la ricchezza dei contributi che essa ha fornito. Tradurre il giusto rilievo di un limite in demonizzazione e disprezzo non serve alla verità e non contribuisce certo, nel contesto didattico, ad educare ad una equilibrata capacità di valutazione.

(Adattamento da Cinzia Bearzot, Lo schiavismo in età greco-romana, in Nuova Secondaria, 3, 1983)
 

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