Il problema della schiavitù in età ellenistica e romana
Dopo l’età classica e l’accettazione della schiavitù come un fenomeno insieme storico e naturale da parte di Aristotele la schiavitù non fu più oggetto, da parte dei filosofi antichi, di una disamina che avesse lo stesso carattere di «scientificità» e di compiutezza ma divenne piuttosto il contenuto di considerazioni filosofiche moraleggianti. Un simile mutamento di prospettiva trova la propria ragion d'essere nei mutamenti storico-culturali che fecero da sfondo alla riflessione filosofica ellenistica e romana.
Il periodo ellenistico, caratterizzato dalla crescita e dal consolidamento di una classe imprenditoriale cittadina, registrò un aumento della mano d'opera schiavistica. Agli schiavi domestici, molto numerosi a causa dello sviluppo di un ceto di «nuovi ricchi» sempre più propenso agli agi, si aggiunsero gli schiavi impiegati come mano d'opera industriale nelle manifatture di Pergamo, d'Antiochia e soprattutto di Alessandria. Queste prime considerevoli concentrazioni di schiavi favorirono l'inizio di massicce rivolte servili, ad esempio a Pergamo, a Delos nel Laureion, che, pressoché sconosciute nel periodo precedente, avrebbero costituito una costante della storia romana tra il 140 ed il 70 a.C. Comunque, per quanto riguarda la natura del trattamento riservato agli schiavi, soprattutto a quelli domestici, il periodo ellenistico registrò alcuni sintomi di un lieve miglioramento. Le manomissioni aumentarono e fu concessa agli schiavi una maggior libertà economica che permetteva ad alcuni di essi di accumulare qualche risparmio. Fu inoltre assicurata una maggiore protezione dei diritti dei liberti e venne permesso agli schiavi di divenire membri di associazioni religiose formate anche da liberi e di costituire a loro volta sodalizi a fini religiosi o sociali.
Da ciò si può dedurre che si verificò un indebolimento delle barriere sociali separanti i liberi dai non liberi, sebbene la schiavitù mantenesse intatta la propria validità dal punto di vista economico e sociale. Per la civiltà romana la schiavitù rappresentò una costante funzionale all'intero assetto economico anche se essa assunse forme diverse nel corso dei secoli. Lo sviluppo della schiavitù romana viene comunemente distinto in tre fasi fondamentali.
Una prima fase, che giunge all'incirca sino al 300 a.C., è caratterizzata da una forma di schiavitù quantitativamente limitata ed inserita in un modo di vita di tipo patriarcale che affonda le proprie radici in un'economia agricola di sussistenza. Durante questa fase gli schiavi sono strettamente integrati nella familia del padrone, partecipando, tra l'altro, anche ai riti religiosi domestici.
Un secondo periodo, iniziatosi tra il 350 ed il 270 a.C. e cioè con le guerre espansionistiche di Roma, culmina con i primi anni dell'impero. A questa fase corrisponde il massimo di diffusione della schiavitù ed il massimo di sfruttamento degli schiavi. I più sfruttati e maltrattati furono i servi che, nell'ambito della familia rustica, vivevano e lavoravano nei campi, raggruppati in squadre e sotto la sorveglianza di un sovrintendente.
Tra gli schiavi cosiddetti urbani, viventi o meno presso la casa del padrone ed addetti ai servizi domestici o ad attività manifatturiere e commerciali, si riscontra una notevole diversità di trattamento, variabile a seconda del temperamento individuale di padroni e schiavi e soprattutto delle diverse situazioni economiche e sociali. Così, accanto ad alcune categorie che godettero di un trattamento accettabile e talvolta di una discreta indipendenza ed anche autorità, come: nutrici, pedagoghi, medici, segretari, artisti e commercianti, ve ne furono altre sottoposte a tutte le vessazioni ed ai capricci di padroni oppressivi ed inumani.
Nel complesso prevalse comunque un rigido sfruttamento al quale gli schiavi opposero frequentemente, negli anni dal 140 al 70 a..C., una disperata volontà di ribellione. La terza fase dello sviluppo della schiavitù romana si apre, all'incirca, con l'inizio della nostra era ed appare caratterizzata da un arresto nell'aumento del numero degli schiavi e da alcuni sintomi di miglioramento nel loro trattamento, accompagnati dalla diffusione di sentimenti più umanitari nei loro confronti.
Il breve e sommario quadro storico sopra delineato ha inequivocabilmente testimoniato che la schiavitù, lungi dal costituire una realtà eccezionale e «scandalosa», rappresentò, con le dovute differenze, la forma più diffusa di lavoro coatto dell’antichità. In una società che non conosceva l'uso di strumenti meccanici e che, perciò, rimaneva ancorata ad una visione del lavoro come naturalizzazione dell’uomo, come suo passivo adeguamento ai ritmi della natura, la schiavitù era un'istituzione necessaria, ancor prima che desiderabile. Infatti, solo attraverso la coazione al lavoro di una parte del corpo sociale era possibile evitare che tutti soggiacessero a quella particolare forma di dipendenza (e perciò di schiavitù) dagli altri e dalla natura che era il lavoro. Libertà e schiavitù costituirono, nella realtà storica del mondo antico, «una coppia di variabili reciprocamente dipendenti»: al crescere della prima corrisponde il crescere della seconda, che la rende possibile e ne è incrementata. Questa diretta proporzionalità fu ben presente ai pensatori dell'antichità che, con la sola eccezione di alcuni sofisti del IV secolo, non contestarono mai la validità della schiavitù come istituzione, pur criticandone alcuni aspetti.
Se Aristotele fu l'unico, per quanto ne sappiamo, a produrre un'analisi formale e sistematica della schiavitù, ciò avvenne perché, di fronte alla generalizzazione ed alla diffusione del modo di produzione schiavistico, imposte dalla nascente economia di mercato, il filosofo avvertì la necessità di ridisegnare una mappa dei rapporti di potere interni alla polis che sancisse, senza possibilità di equivoco, il ruolo di subalternità dello schiavo. Per contro, la filosofia morale postaristotelica, una volta esauritasi l'egemonia della polis e definitivamente allargatesi le sfere della produzione e del consumo, non ebbe più bisogno di spiegare la schiavitù.
Dinanzi alla complessità politica e sociale del periodo ellenistico e dell'età romana, il saggio abbandona il terreno della spiegazione del reale come mediazione tra morale e politica, esaltando la prima e negando validità alla seconda. La felicità non è più per gli Stoici il fine a cui tende la polis bensì conquista tutta individuale di un uomo che trova solo in se stesso i veri valori morali. Tutto ciò che è esterno all'uomo, che non dipende da lui, salute, ricchezza, potere, libertà materiale, non ha alcuna importanza, non costituisce un bene e quindi non è da ricercare. Nessuna riforma politica e sociale è utile, per il saggio stoico, perché nessuna di tali riforme corrisponde ad un vero beneficio per l'uomo. Ora, il presupposto che le condizioni esterne in cui gli uomini vivono sono irrilevanti per la loro virtù e felicità porta logicamente ad un'accettazione passiva di tutte le istituzioni giuridiche, politiche e sociali esistenti, e quindi anche della schiavitù. La schiavitù giuridica diviene così irrilevante per lo stoico ben più preoccupato di quella schiavitù interiore degli eccessi e del vizio a cui tutti indistintamente possiamo essere soggetti.
In tal modo la schiavitù, come istituzione, nella visione stoica viene riletta e interpretata come condizione esistenziale, e può continuare a sussistere pacificamente, tanto da assumere nella cultura romana persino una connotazione filantropica. «L'etimologia di servus, infatti, prospettata dai romani, è servare; servatus è cioè l'individuo che sconfitto in battaglia viene, invece che ucciso, risparmiato dal vincitore. La larga accettazione di tale etimologia da parte dei Romani comporta, in un certo senso, già di per sé una valutazione morale dell'istituzione.
Nell'asservimento venne vista, infatti, la manifestazione di un atto di misericordia e di filantropia del vincitore che, risparmiando la vita di un uomo, assumeva contemporaneamente ogni diritto nei suoi confronti». Nel De Republica Cicerone dichiara che «per natura» il dominio compete alle cose migliori a tutto vantaggio delle peggiori. E tra i vari tipi di dominazione e di soggezione egli distingue quella dei governanti: re, magistrati ed assemblee nei confronti dei cittadini governati, da quella dei padroni sugli schiavi, paragonando la prima al governo della mente sul corpo (dominazione più benigna data l’arrendevolezza del corpo alla mente), la seconda (necessariamente più drastica) a quella della ragione sulle passioni sfrenate".
Cicerone, attraverso la teoria dell'imperium naturale dei migliori sui peggiori, ricolloca il rapporto padrone-schiavo all'interno del sociale e lo paragona a quello ragione-licenza, conferendo alla schiavitù la benefica funzione di frenare la tendenza al male di alcuni uomini. Anche per Cicerone allora, come per Aristotele, lo schiavo è individuo incapace di autodeterminazione, di autonomia, ma lo schiavo ciceroniano palesa un’inclinazione al male, estranea alla riflessione aristotelica, che può trovare un limite solo nell'autorità del padrone.
Da ciò ne discende che la schiavitù è, in un certo senso, un’istituzione filantropica e comunque non antitetica all'impulso ad amare e di cooperazione che unisce gli uomini. In epoca imperiale la schiavitù costituirà l’oggetto di alcune importanti riflessioni senechiane, che sebbene impostate ad un esplicito recupero delle tematiche stoiche non trascureranno la dimensione più propriamente storico-sociale del fenomeno.
Infatti Seneca, pur ribadendo che la vera schiavitù è solo quella dello spirito nei confronti delle passioni, non si limita ad accettare passivamente l'ordine politico-sociale della società a lui contemporanea, ma ne fornisce una valutazione fondamentale positiva, attraverso la teoria della caduta. Secondo tale teoria, che si riallaccia al persistente mito greco di un'Età dell'Oro (o di Cronos o di Saturno) precedente l'era storica, la schiavitù non avrebbe avuto luogo nello stato di natura, in cui tutti gli uomini vivevano in una condizione di innocenza e di pacifica convivenza.
In quell'età, non essendovi guerra, non v'era neppure schiavitù, né proprietà privata, né governo coercitivo. Ad un certo punto, però, lo stato originario di pacifica convivenza si corruppe e ad esso subentrò un malvagio egoismo ed una esasperata lotta di sopraffazione: nacquero le guerre, la prigionia e quindi la schiavitù. Il fatto che la guerra e la schiavitù non esistessero nello stato di natura non significa, in alcun modo, che esse siano da condannare e da respingere. Infatti nella situazione di decadenza e di corruzione, propria dell’umanità dopo la «caduta», le istituzioni coercitive acquistano una giustificazione ed un valore tutto sommato positivo poiché tendono a limitare i mali derivanti dalla nuova, e malvagia, natura degli uomini. Così la schiavitù, imponendo al vincitore di risparmiare il vinto e permettendo al vinto di fuggire la morte, costituisce un limite alla volontà annientatrice propria della natura umana, dopo la caduta. Seneca non concepisce, perciò, il trapasso dalla condizione di natura come un regresso assoluto. Infatti nell'Età dell'Oro gli uomini erano sì buoni ma non possedevano una consapevole volontà morale.
Inoltre la «caduta» comportò la nascita del progresso culturale, tecnico e materiale, stimolato dalle necessità umane e promosso dall'esperienza. Anche in Seneca, dunque, l'analisi della schiavitù non sfocia nell'aperta condanna di essa ma nell'ulteriore sanzione della sua validità. In quanto diretta conseguenza della guerra, la schiavitù è per Seneca, come già per gli Stoici greci, frutto del fato e, come tale, ineluttabile. Semmai, ciò che può essere passibile di cambiamento è la condotta dei padroni, ai quali Seneca raccomanda un trattamento più umano degli schiavi e sempre ispirato a quell’humanitas che sola garantisce l'autenticità dei rapporti interpersonali, perché lo schiavo è pur sempre un uomo, anche se vittima del fato. Destino, a cui il saggio non si oppone perché, proprio nel conformarsi ad esso, sa di realizzare la propria libertà. Così Epitteto, egli stesso schiavo e liberto prima di essere filosofo, afferma che lo schiavo, desideroso di acquistare la libertà, è in effetti uno stolto in quanto «schiavo» di un'aspirazione che lo pone in uno sterile antagonismo nei confronti del destino. L'unica auspicabile emancipazione resta, perciò, quella spirituale, nei confronti della quale quella giuridica è del tutto indifferente poiché anche il libero può essere schiavo delle passioni. La presenza, nella cultura romana imperiale, della schiavitù come categoria esistenziale, indipendente dallo status giuridico dell'individuo, ha indotto non pochi studiosi a leggere le testimonianze dell'epoca in una prospettiva antischiavistica ed abolizionista. Crediamo che una simile interpretazione, forse eccessivamente preoccupata di perdonare alla cultura classica la presenza di una realtà «scandalosa» come la schiavitù, non possa essere accettata proprio in base a quelle stesse testimonianze che dovrebbero invece confermarla. Il filantropismo di Seneca e la «filosofia della liberazione» di Epitteto non erano diretti, infatti, ad una contestazione della realtà storica della schiavitù ma ad una moralizzazione di essa che ne rendesse più sopportabile l'accettazione. L’humanitas del padrone e la consapevolezza della propria libertà spirituale da parte dello schiavo non vanificavano il rapporto che li univa, ma piuttosto lo arricchivano di nuove valenze morali e, sotto certi aspetti, lo nobilitavano.
(adattamento da acd M. Maruzzi, La Politica di Aristotele e il problema della schiavitù nel mondo antico, Paravia, 1988)