Il problema della schiavitù nel mondo greco
Per affrontare l'esame della visione greca della schiavitù è necessario, per una reale comprensione della teoria stessa, rilevare alcune peculiarità dell'economia antica.
Occorre notare, innanzitutto, che il concetto stesso di «economia» in senso moderno è intraducibile in greco, semplicemente perché i greci non lo avevano. La parola greca oikonomia non ha lo stesso significato del nostro termine «economia», anche se questo ne è la derivazione. Essa significa «gestione della proprietà familiare» (dell'oikos) nel senso più vasto di economia domestica e non solo in senso strettamente economico. Può significare anche «gestione, amministrazione, organizzazione» in senso più generale, ed essere applicato a campi diversi; possiamo così parlare di oikonomia degli affari della polis ed è questa l'origine del nostro termine «economia politica».
L'economia, quindi, non ha mai rappresentato per i Greci una realtà autonoma. Infatti, secondo la nota definizione di K. Polanyi, l'economia primitiva e arcaica è sempre più o meno «integrata» alla società e a tutte le sue istituzioni. Ciò significa che mentre l'economia moderna, dominata dal valore di scambio e dal mercato, costituisce una realtà autonoma, regolata da leggi proprie, l'economia antica, caratterizzata dalla prevalenza del valore d'uso del prodotto e da una concezione qualitativa degli atti economici, appare, invece, vincolata ad istituzioni non economiche quali la parentela, il matrimonio, i gruppi di età, le solennità pubbliche. Vale a dire che, in questo tipo di società, l'atto economico dipende dallo «status» di chi lo compie e da esso trae il proprio significato. Pertanto una corretta analisi delle strutture dell'economia greca antica non può non riguardare anche lo studio dei valori etici e politici che l'hanno sovradeterminata.
Tra le abitudini mentali che influenzarono il comportamento economico dei greci si presenta in primo luogo la fondamentale distinzione di valore, e la conseguente gerarchia, delle differenti occupazioni. Alcune soltanto erano considerate degne del «vero uomo», altre erano ritenute inferiori e adatte solo ai «non-cittadini».
In questa gerarchia di mestieri, l'agricoltura occupava quasi sempre un posto al vertice della scala ed era nettamente distinta dalle altre attività economiche. L'agricoltura non era concepita come un'azione dell'uomo sulla natura, per trasformarla o adattarla ai propri fini ma semmai come un processo di «naturalizzazione» dell'uomo che riusciva, attraverso la pratica agricola, ad inserirsi nel grande ciclo, naturale e divino, della vita e della morte. «E in questo contesto religioso che l'aspetto di sforzo, nel lavoro agricolo, assume un significato particolare: l'affrontare il compito imposto, l'occupazione dura e tesa acquistano valore e prestigio nella misura in cui stabiliscono un rapporto con la divinità, una sorta di legame reciproco». Inoltre, l'agricoltura è sinonimo, per l'uomo greco, di autarchia, di autosufficienza, di autonoma soddisfazione dei limitati bisogni naturali. L'ideale del proprietario terriero, libero, indipendente ed autosufficiente permea tutta la storia della cultura antica, implicando dialetticamente la svalutazione delle altre forme di attività economica.
La causa principale di una simile svalutazione va ricercata proprio nell'evidenziata prevalenza del valore d'uso sul valore di scambio. La cultura greca non possiede ancora il concetto di lavoro astratto, cioè di lavoro in generale, in cui tutti i lavori professionali, per quanto nel concreto siano diversissimi tra di loro, rientrano in uno stesso tipo d'impegno, di lavoro come attività che mira a produrre valori utili al gruppo. Esiste una stretta relazione tra questo concetto e l'economia mercantile nella quale tutti i lavori mirano in egual misura a creare merci, cioè prodotti per il mercato.
Con il mercato, tutti i lavori effettuati nell'insieme della società vengono confrontati gli uni con gli altri, messi in relazione, uguagliati. Diversi nell'uso, i prodotti sono uguagliati nel valore. Invece nell'economia greca il lavoro appare esclusivamente nel suo aspetto concreto ed è definito in funzione del prodotto che mira a fabbricare. La prevalenza del valore d'uso determina nelle attività tecniche un rapporto personale di dipendenza del produttore rispetto all'utente: la tecnica dell'artigiano è subordinata sia al prodotto sia al bisogno dell'utente.
Il lavoratore è quindi strumento, mezzo dell'utente che è fine. L'artigiano svolge, in tal modo, il proprio lavoro all'interno di un rapporto di dipendenza, che gli preclude necessariamente la realizzazione di quell'autosufficienza, economica ed etica, che è valore primario del mondo greco. Ciò che appare determinante nell'atteggiamento dell'uomo greco verso il lavoro è la condanna dell'attività lavorativa come azione subordinata a un fine esterno al lavoratore. Il libero contadino, che lavora la propria terra o l'aristocratico che, occasionalmente e per esclusivo uso privato, fabbrica un oggetto non subiscono alcuna degradazione della loro essenza di uomini perché, nella loro azione, soddisfano se stessi. Per contro, l'artigiano, il commerciante e il manovale, le cui attività sono mezzo per il soddisfacimento di bisogni altrui, saranno sempre più assimilati, a partire dal secolo VIII, al «non-libero», allo schiavo.
La schiavitù, come forma di lavoro coatto, viene ormai riconosciuta da tutti gli storici come un «fatto primordiale, contemporaneo all'origine della società». Ciò che appare meno scontato e «naturale» è la trasformazione di questa forma di lavoro coatto in modo di produzione schiavistico, invenzione decisiva del mondo greco-romano che istituzionalizzò l'impiego su larga scala del lavoro servile, sia nelle campagne che nelle città. Forse si può cogliere la spiegazione di una simile trasformazione proprio in alcune caratteristiche della schiavitù, come forma particolare di lavoro coatto.
La coazione al lavoro è una realtà che si è imposta come momento necessario dello sviluppo produttivo del gruppo. «Il bisogno di mobilitare forza lavoro per operazioni che sono al di là delle capacità del singolo o della famiglia risale indietro nel tempo sino alla preistoria. Un tale bisogno si presentava ogni volta che una società perveniva ad uno stadio di sufficiente accumulazione di risorse e di potere nelle mani di qualcuno (che fosse il re, il tempio, la tribù dominante o l'aristocrazia). E la forza lavoro necessaria la si otteneva coattivamente — con la forza delle armi o con quella della legge e della consuetudine, di solito con entrambe congiuntamente — per conseguire tutte quelle finalità (o rispondere a quegli interessi) che non avrebbero potuto dar luogo ad una spontanea cooperazione: nell'agricoltura come nell'attività mineraria, nei lavori pubblici come nella fabbricazione delle armi».
Questa coazione al lavoro assunse varie forme: servitù per debiti, clientela, condizione di ilota, di servo della gleba, schiavitù vera e propria, ma si distinse sempre dal lavoro salariato proprio per quella connotazione di obbligatorietà all'attività produttiva che ne costituiva l'essenza. Vari e complessi furono i gradi di questa «non-libertà» al lavoro, ma possiamo affermare con certezza che essa raggiunse la sua più completa realizzazione nella schiavitù, che comportò la totale mercificazione del lavoratore. In quanto merce, lo schiavo era proprietà, anche se provvista di un'anima. Ciò significava che lo schiavo era soggetto non solo alla completa alienazione delle proprie capacità produttive, ma anche alla completa perdita del controllo della sua persona. Per di più, questa perdita si protraeva indefinitamente nel tempo, estendendosi ai discendenti. La totalità dei diritti del proprietario era facilitata dal fatto che lo schiavo era sempre uno straniero, costituendo la guerra e la pirateria le tradizionali fonti della schiavitù, e perciò privo di qualsiasi identità politica e giuridica. Inoltre, questa condizione di estraneità veniva aggravata dalla quasi totale perdita, da parte dello schiavo, del più elementare dei vincoli sociali: la parentela. Infatti, non solo era lasciata all'arbitrio del singolo proprietario la possibilità di unione tra schiavi, ma le stesse famiglie di schiavi venivano disperse attraverso la vendita dei loro membri. Ciò si spiega con la costante paura del proprietario di schiavi, che poteva essere sia un privato sia lo stato, di avere alle proprie dipendenze degli individui che avrebbero potuto dar vita, attraverso i vincoli della parentela, a forme di solidarietà e di organizzazione che avrebberopotuto favorire episodi di ribellione.
Le tre caratteristiche della schiavitù, il fatto che lo schiavo era proprietà, l'assolutezza del potere esercitato sopra di lui e la sua condizione di senza famiglia, presentavano consistenti vantaggi per il proprietario di.schiavi, che poteva disporre di un maggior potere di controllo e di una maggiore flessibilità nell'impiego della forza lavoro. Perché la schiavitù si trasformasse da semplice, e non unica, categoria di lavoro coatto in sistema produttivo istituzionalizzato era necessario che i vantaggi ad essa connessi apparissero come l'unica possibile soluzione del problema produttivo.
Ciò si verificò, nel mondo greco e particolarmente ad Atene, tra l'VIII ed il VII secolo a.C. quando una progressiva concentrazione della terra nelle mani di pochi proprietari ed un sufficiente sviluppo della produzione da commercializzare provocarono una massiccia domanda di mano d'opera, sempre meno soddisfatta dall'offerta interna di forza lavoro.
Occorre notare, a questo proposito, che la riforma di Solone (594 a.C.), abolendo la servitù per debiti e procedendo ad una omogeneizzazione del corpo politico, aveva creato le condizioni per una radicale trasformazione della mano d'opera disponibile. I contadini attici, che attraverso le lotte del VI secolo avevano conquistato la libertà personale e il diritto a detenere la terra, divennero a tutti gli effetti dei cittadini, liberi ed autosufficienti e, come tali, non più disponibili a svolgere un'attività produttiva dipendente. Ciò comportò, da parte dell'élite aristocratica, il massiccio e permanente ricorso alla mano d'opera servile, ormai costituita prevalentemente da non Greci, da «barbari». Si ritiene che nei periodi di massimo sviluppo della schiavitù, nell'Atene del V e IV secolo a.C., il numero degli schiavi, presenti in tutti gli ambiti produttivi (di beni e di servizi) della polis, si sia aggirato attorno alle centomila unità.
Il mutamento non fu solo quantitativo ma anche qualitativo: lo schiavo del mondo omerico, soggetto ad un legame di tipo patriarcale che lo aveva coinvolto nei rapporti di solidarietà dell’oikos arcaico, viene progressivamente sostituito dallo «schiavo-merce», la cui utilizzazione nell'attività manifatturiera, sia pubblica che privata, registrò livelli di sfruttamento e di disumanizzazione prima sconosciuti.
È possibile suddividere gli schiavi greci in tre grandi categorie: schiavi dei templi, schiavi pubblici e schiavi privati. Lo stato giuridico, la funzione e la condizione degli schiavi dei templi non sono stati ancora completamente chiariti dagli studiosi, anche se sembra lecito supporre che questi «servitori della divinità» godessero di una posizione privilegiata rispetto alla gran massa degli «schiavi-merce». Per quanto riguarda gli schiavi pubblici, cioè di proprietà della polis, si sa che erano abbastanza diffusi in tutti i rami dell'amministrazione. Schiavi pubblici furono anche i trecento arcieri sciti cui Atene affidò, tra la fine della seconda guerra persiana e l'inizio del IV secolo, compiti di polizia in occasione delle riunioni dell'assemblea popolare, del Consiglio e dell'Areopago". Gli schiavi privati furono di gran lunga i più numerosi e vennero prevalentemente impiegati nei servizi domestici e, in misura minore, in molti altri settori economici: agricoltura, industria estrattiva, artigianato, commercio e servizi vari. Bisogna inoltre distinguere fra coloro che lavoravano alle dirette dipendenze dei padroni e quelli che vivevano e lavoravano separati dai proprietari, cui versavano tutti o una parte dei guadagni.
La stessa terminologia di base relativa alla schiavitù non appare univoca e priva di ambiguità, proprio perché complessa ed estremamente differenziata era la realtà cui si riferiva. Oltre agli appellativi locali, che connotavano questa o quella popolazione asservita (iloti della Laconia, penesti della Tessaglia ecc.), esisteva in realtà un gran numero di termini generici atti a designare gli schiavi. L'unico che non dia luogo a confusione è il termine andrapodon. Apparentato etimologicamente a tetrapodon («essere a quattro zampe») che indica il bestiame, l'«essere dai piedi umani» designa lo schiavo in quanto cosa, oggetto di proprietà o di lucro. Ancor più frequente in epoca classica è la parola doûlos che si oppone, in modo implicito od esplicito, al termine eleutheros, «uomo libero», e ancor più a polites, «cittadino». Ma lo schiavo comune è anche, pur con minor frequenza, therapon, vale a dire «servitore»; akolouthos, cioè «accompagnatore»; paîs, cioè «ragazzo», termine affettuoso e nello stesso tempo sprezzante; sôma, cioè «corpo», diffusosi soprattutto a partire dal IV secolo.
L'estrema varietà della condizione di schiavo non permette, inoltre, di definire gli schiavi come una vera e propria classe sociale, nel senso di unità organica, compatta e cosciente. Infatti non appare possibile denotare univocamente gli schiavi greci in relazione al posto da essi occupato nei rapporti di produzione, né tantomeno attribuire loro una comunità d'interessi e la formulazione di un programma politico comune. Tutto ciò che essi potevano rivendicare era la libertà, e a solo titolo individuale poiché, in quanto schiavi, erano esclusi dalle lotte politiche. Dato che per loro era impensabile l'accesso al potere politico, l'unico tipo di azione a cui potevano ricorrere era la fuga, quando si presentava un'occasione favorevole: così l'occupazione di Decelea, in Attica, ad opera degli Spartani e dei loro alleati causò, a partire dal 413, molte fughe di schiavi. Quanto fosse vincolante la gerarchia degli status all'interno della polis lo testimonia, anche, il fatto che l'affrancamento dalla schiavitù non comportava il diritto alla cittadinanza. Quasi sempre la libertà dell'emancipato era condizionata da limitazioni e da obbligazioni nei confronti del vecchio padrone, limiti ed obblighi che, se non rispettati, potevano portare all'annullamento dell'emancipazione.
(adattamento da acd M. Maruzzi,
La Politica di Aristotele e il problema della schiavitù nel mondo antico, Paravia, 1988)