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L’origine del lavoro

«Prima di Giove nessun contadino coltivava campi; non era neppure lecito delimitare e dividere i campi; si raccoglieva insieme e la terra stessa, senza che le fosse richiesto, produceva spontaneamente e con generosità ogni cosa».
(Virgilio, Georgiche, I, 125s.)

Nella riflessione degli antichi il lavoro non fa parte della condizione originaria dell’uomo, ma si innesta nella storia dell'umanità in modo improvviso. Di fronte all'insorgere di tale necessità gli antichi hanno individuato due diverse motivazioni e due diverse prospet¬tive. Per alcuni il lavoro per sfruttare le risorse naturali è dovuto all’avidità dell’uomo e lo allontana dallo stato iniziale, avviandolo verso la decadenza.

 

«Ma in quest’ottimo stato di cose irruppe l’avarizia; e nel desiderio di sottrarre alla comunanza dei beni una parte per farla propria, l’uomo rinunciò al tutto e si ridusse dal godimento illimitato dei beni nei limiti del possesso individuale. L’avarizia portò con sé la povertà e, bramando troppe cose, perdette tutto. […] Quando avremo fatto tutto il possibile, avremo molti possedimenti: prima possedevamo tutto».
(Seneca, Lettere a Lucilio, 90,36 s.)

 

Per altri invece il lavoro è dovuto agli dei perché l’individuo potesse soddisfare le sue esigenze in modo autonomo e non dipendente dagli altri.

«Esegui, Perse, sciocco, i lavori che gli dei han dato agli uomini come destino; perché tu con i figli e la moglie dolente nel cuore non debba mai cercare di che vivere presso i vicini e loro di te non si curino».
(Esiodo,  Le opere e i giorni, 298 s.)

Tuttavia, in tale dura condizione, assegnata dalla divinità, gli antichi videro, oltre che un destino gravoso, anche per l’uomo una possibilità di sviluppare pienamente le sue potenzialità e una spinta per il progresso e il miglioramento del mondo.

«Lo stesso Padre volle che non fosse facile la via della coltivazione e per prime fece smuovere col lavoro i campi, aguzzando gli animi dei mortali con le preoccupazioni, e non permise che i suoi sudditi s'intorpidissero nella pesante inerzia. Egli fornì alla malignità dei serpenti il veleno per nuocere, indusse il mare ad agitarsi, spogliò del miele le foglie, nascose il fuoco e seccò i ruscelli di vino che scorrevano ovunque, perché l’esperienza, provando e riprovando, costituisse le diverse arti, scoprisse nei solchi gli steli del frumento e suscitasse il fuoco nascosto dalle vene della selce».
(Virgilio, Georgiche, I, 125 s.)

 Non tutti i lavori sono ugualmente considerati nel mondo antico, unanime è l’apprezzamento dell’agricoltura, mentre le altre attività sono talvolta messe in questione sul piano etico

«Navigazione ed agricoltura, mura, leggi, armi, vie, vesti e le altre cose di questo tipo, i doni e anche tutte quante le delizie della vita, i canti, le pitture e le statue lavorate con arte, levigate, gradatamente li insegnarono agli uomini avanzanti gradatamente la pratica e, insieme, lo sperimentare della mente alacre. Così giorno dopo giorno il tempo rivela ogni cosa e la ragione la spinge verso le spiagge della luce. Difatti con la mente vedevano le cose trarre luce l'una dall’altra, finché con le arti giunsero al culmine più alto».
(Lucrezio, V, 1448 s.)

Non tutti i lavori sono ugualmente considerati nel mondo antico, unanime è l’apprezzamento dell’agricoltura, mentre le altre attività sono talvolta messe in questione sul piano etico

«I contadini hanno un conto aperto con la terra che non rifiuta mai il loro dominio e non restituisce mai il capitale ricevuto senza interessi: talvolta lo rende a un tasso minore, ma per lo più maggiore».
(Cicerone, La vecchiaia, 51)

L’agricoltura, infatti, nel mondo antico costituisce l’attività primaria e più sicura, traino delle altre componenti economiche quali l’artigianato e il commercio; alle voci che ne mettono in rilievo il vantaggio economico si affiancano più numerose quelle che ne esaltano la piacevolezza e il valore.

«O fortunati, fortunati i contadini, se apprezzano i beni che possiedono! […] La loro pace almeno è sicura e la vita, ricca d'un mondo di risorse, non conosce falsità, ma l’ozio nella vastità dei campi fra grotte, laghi di sorgente, la frescura di Tempe e muggiti di buoi, e sotto un albero non mancherà la dolcezza del sonno».
(Virgilio, Georgiche, II, 458 s.)

«E i contadini ogni giorno di più costringevano le selve a ritirarsi sui monti, e a far posto in basso alle colture, per aver prati, stagni, ruscelli, messi e floridi vigneti sui colli e nelle pianure, e perché la cerula zona degli ulivi col suo risalto potesse correre in mezzo, sparsa per poggi e convalli e pianure».
(Lucrezio, V, 1367 ss.)

Il lavoro dei campi è quindi l’attività lavorativa più adatta all’uomo, essere libero e creativo: con la sua intelligenza e laboriosità collabora all’opera della natura e la fa ulteriormente fruttare rendendo bella e funzionale la terra; lavora per sé e per la sua famiglia, senza assoggettarsi ad altri ed al loro bisogno, come fa invece l’artigiano e il commerciante; vive lontano dal disordine e dalla lotta e pratica i valori della semplicità e dell’essenzialità, valori propri dell’uomo saggio.

«E dagli agricoltori che provengono gli uomini più temperati e i soldati più valorosi proprio nell’agricoltura si consegue un guadagno del tutto onesto e sicuro e assolutamente non esposto all’odiosità; e coloro che si dedicarono a tale occupazione non possono essere affatto malpensanti».
(Catone, L’agricoltura, Pref. 1-4)

«Là [in campagna] trovi giovani che non temono la fatica, abituati ai sacrifici, e il culto degli dei, il rispetto dei padri; andandosene dalla terra la Giustizia, lasciò tra loro le sue ultime tracce».
(Virgilio, Georgiche, II, 472 s.)

 Nel mondo romano in particolare, questo è il mondo che più si richiama all’etica degli antenati e degli antichi valori alla base della grandezza di Roma.

Per questo Cicerone afferma che

«fra tutte le occupazioni, da cui si può trarre qualche profitto. la più nobile, la più feconda, la più dilettevole, la più degna di un vero uomo e di un libero cittadino è l’agricoltura». (Cicerone, I doveri, I, 150 s.)

Diverso è il discorso sull’artigianato e il commercio.

«Sono riprovevoli i guadagni che muovono l’odio della gente come quelli degli esattori e degli usurai. Sono, poi, ignobili e abietti i guadagni di tutti quei mercenari che vendono il lavoro del braccio, non l’opera della mente: in essi la ricompensa è il prezzo della loro servitù. Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: in una bottega non c’è nobiltà. Ancora più bassi sono i mestieri che servono al piacere».
(Cicerone, I doveri, I, 150 s.)

Spesso la pratica dell'artigianato nel mondo antico fu sottovalutata nel suo peso economico, ma soprattutto sminuita nel suo valore etico, perché identificata con realizzazione pratica e strumentale, puramente manuale. Tuttavia Esiodo esorta il fratello Perse a costruirsi personalmente i propri attrezzi.

«Fatti due aratri costruendoli in casa: […] se uno si rompe, attaccherai dietro i buoi l’altro perché è facile dire"prestami i buoi e il carro”, […] ma è anche facile che vengano negati, dicendo: “I miei buoi hanno già il loro lavoro"».

(Esiodo, Le opere e i giorni, 432 s.)

L’attività  artigianale venne quindi disprezzata, non in quanto manuale, ma in quanto servile. Utile e degna è l'opera che l’individuo intraprende per il proprio uso personale: si inserisce nella valorizzazione della libertà e dell'autosufficienza, propria del mondo greco, meschina e avvilente è la stessa attività quando la si pratica per il mero guadagno e per interessi altrui.
Come l'agricoltore costituiva il modello di dirittura morale, così gli artigiani «seduti all’ombra dei loro laboratori e a passare, a volte, persino tutta la giornata vicino al fuoco» si identificano con uno stato morale degenerato.

«Essendo così i corpi rammolliti, anche le anime diventano molto più vili. Soprattutto questi mestieri detti artigianali non lasciano nessun tempo libero per occuparsi anche degli amici e della città: cosicché chi se ne occupa appare individuo meschino sia nel rapporto con gli amici sia nel prestare aiuto alla patria. Perciò in qualche città, specialmente in quelle che passano per guerriere, Si arriva perfino a proibire a turn i cittadini di praticare i mestieri degli artigiani».
(Senofonte, Economico, 4, 2)

Alla moralità esemplare del contadino viene spesso opposta l’immoralità dei mercanti, soprattutto del piccolo commerciante. Il commercio non era un lavoro, in quanto mancava di quella componente della fatica fisica che ne giustificava la ricompensa e non rendeva evidente il "prodotto" del suo agire. L’operato del mercante rimaneva invisibile e perciò destava sospetto.

«I nostri antenati [... ] quando lodavano un individuo degno lo definivano "buon agricoltore e buon colono", e si riteneva che chi veniva lodato in tali termini ricevesse la massima lode».
(Catone, L’agricoltura, Prefazione 1.4)

«Sono da reputarsi abietti coloro che acquistano dai grossi mercanti merci da rivendere subito al minuto: costoro non farebbero alcun guadagno se non dicessero tante bugie; e il mentire è la più grande vergogna del mondo».

(Cicerone, I doveri. 1,150 s.)

«Quanto al commercio, se è in piccolo, è da considerarsi degradante; ma se è in grande, poiché con esso si importano da ogni parte molte merci e sono distribuite a molti senza frode, non è poi tanto da biasimarsi. Anzi, se il mercante, sazio o, per dir meglio, contento dei suoi guadagni, come spesso dall'alto mare si trasferisce nel porto, così ora dal porto si ritira nei suoi possedimenti in campagna, merita evidentemente ogni lode».

(Cicerone, I doveri, 1, 151)

Se Cicerone differenzia il commerciante in piccolo dal commerciante in grande, Platone afferma che

«tutti i tipi di attività che hanno a che fare con il commercio al minuto, con quello all'ingrosso e con quello dell'albergatore, sono stati screditati e vengono disprezzati come cosa vergognosa» (Platone, Leggi, 918 c-d).

La motivazione di tale giudizio negativo è radicata nella natura stessa dell'uomo, avida e senza limite:

«Solo un piccolo genere di uomini, limitato nel numero dalla natura stessa, di uomini educati in modo eccezionale, sa fermarsi ai limiti della moderazione. [... ] La massa degli uomini ha un comportamento opposto, e se ha un bisogno, il suo bisogno è senza fine, e pur potendo guadagnare il giusto sceglie di guadagnare senza sazietà».

Certamente veniva riconosciuta la pericolosità dei viaggi e le gravi preoccupazioni, nonché la precarietà dei risultati, da basarsi essenzialmente sulle capacità di previsione e sull'intraprendenza; si ammetteva anche che «il mercante giova alle città» (Seneca, I benefici, II, 13, 2), ma si sminuiva il suo contributo perché, mentre giovava alla città, faceva il suo interesse.

(riduzione da acd M. Morani, La concezione della storia del mondo antico fra progresso e caduta, Itaca, 2004)

 

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