I principali elementi del nuovo complesso urbano erano la fabbrica, la ferrovia e lo slum. Erano essi a comporre la città industriale: una espressione per designare semplicemente il fatto che almeno duemila persone erano concentrate in un territorio che poteva essere indicato con un unico nome proprio. Questi grumi urbani potevano ingrandirsi cento volte - e alcuni effettivamente si ingrandirono - senza per questo acquistare qualcosa di più che un'apparenza delle istituzioni che caratterizzano una città nell'accezione sociologica del termine, di luogo in cui si concentra un'eredità sociale e in cui la possibilità di continui rapporti e di reciproche influenze eleva a un potenziale più alto le complesse attività dell'uomo. Erano assenti persino gli organi caratteristici della città neolitica, se non in forme raggrinzite, come residui di altre epoche.
La fabbrica divenne il nucleo del nuovo organismo urbano. Ogni altro elemento le era subordinato. Persino i servizi pubblici, come il rifornimento dell'acqua, e quel minimo di uffici governativi indispensabile all'esistenza di una città, se non erano stati approntati da una generazione precedente, vi venivano introdotti solo con molto ritardo. Per gli utilitaristi non erano semplici ornamenti soltanto l'arte e la religione, ma anche l'intelligente amministrazione politica. Quando incominciava la corsa alla ricchezza non si prendevano neppure le precauzioni necessarie per assicurarsi un corpo di polizia e uno di vigili del fuoco, per ispezionare i cibi e le acque, per garantirsi scuole e ospedali.
La fabbrica si accaparrava di solito le posizioni migliori: le industrie cotoniere, chimiche e siderurgiche sceglievano siti non lontani da una banchina, perché erano necessarie grandi quantità d'acqua nei processi di produzione, cioè per rifornire le caldaie a vapore, raffreddare le superfici roventi, preparare le soluzioni chimiche e i coloranti. Ora il fiume o il canale aveva anche un'altra funzione, ancora più importante: era il luogo di scarico più economico e più comodo per i rifiuti solubili o galleggianti di qualsiasi genere. La trasformazione dei fiumi in vere e proprie fogne fu una delle tipiche imprese della nuova economia. Conseguenze: avvelenamento della vita acquatica, distruzione di alimenti, inquinamento delle acque al punto che diventava sconsigliabile bagnarvisi.
Per generazioni i membri di ogni comunità urbana «progredita» furono costretti a scontare gli sporchi comodi dell'industriale che spesso gettava nel fiume residuati preziosi, non avendo conoscenze scientifiche o capacità empiriche per utilizzarli. Se il fiume era un deposito liquido, enormi cumuli di cenere, scorie, rottami, ferro arrugginito e persino immondizie bloccavano la visuale con uno spettacolo di materia mal collocata inutilizzabile. La rapidità della produzione era in parte compensata da quella della decomposizione, e prima che una prudente politica di utilizzazione dei rottami metallici diventasse redditizia, i prodotti terminali informi o deteriorati venivano gettati sulla superficie del paesaggio. Nella Black Country gli enormi ammassi di scorie hanno oggi l'aspetto di formazioni geologiche: essi diminuirono lo spazio vitale disponibile, gettarono un'ombra sulla terra e sino ad epoca recentissima presentarono il problema insolubile di come utilizzarli o rimuoverli.
Le testimonianze che confermano questa descrizione sono innumerevoli; inoltre è ancora possibile verificarla con ispezioni dirette nelle più antiche città industriali dell'Occidente, nonostante gli sforzi erculei compiuti per purificarle. Mi si permetta comunque di citare un lontano osservatore, Hugh Miller, autore di Old Red Sandstone: un uomo perfettamente in armonia con la propria epoca ma non insensibile alle realtà dell'ambiente che lo circondava. Il suo discorso si riferisce alla Manchester del 1862:
«Niente sembra più caratteristico della grande città industriale, sia pure negativamente, del fiume Irwell che l'attraversa... Questo sventurato fiume - un ruscello abbastanza grazioso qualche miglio più a monte, con alberi che ne sovrastano gli argini e frange di verde carice che s'infittiscono lungo il suo corso - si declassa appena arriva tra le fabbriche e le stamperie. Miriadi di cose sporche gli vengono offerte perché le lavi, e vagoni interi di veleni vi vengono gettati dalle tintorie perché porti via; le caldaie a vapore vi scaricano il loro bollente contenuto, i canali di scolo e le fogne le loro fetide impurità; talché alla fine continua la sua corsa - ora tra muri alti e squallidi, ora sotto precipizi di arenaria rossa - non essendo più un fiume ma un flusso di letame liquido».
Si osservino le conseguenze sull'ambiente di quella concentrazione delle industrie che il nuovo regime tendeva a universalizzare. Gli effluvi di una sola fabbrica, di un solo altoforno, di una sola tintoria potevano essere facilmente assorbiti dal paesaggio circostante; ma quando se ne concentravano venti e più, in una zona limitata, la contaminazione dell'aria e dell'acqua era totale e irrimediabile. Inoltre nella nuova concentrazione urbana le industrie che creavano inevitabilmente sporcizia diventavano assai più perniciose di quando avevano dimensioni minori, ed erano più largamente disperse nella campagna. Nello stesso tempo le industrie «pulite», come la fabbricazione delle coperte tuttora praticata a Witney in Inghilterra, con le operazioni di candeggio e di ritiro compiute all'aperto su un incantevole sfondo agreste, non potevano conservare nei nuovi centri gli antichi metodi rurali. Il cloro prese dunque il posto della luce solare, e al salutare lavoro all'aperto che accompagnava spesso i più antichi processi industriali, con frequenti mutamenti di ambiente e di attività per rinnovare lo spirito dell'operaio, si sostituì la noiosa schiavitù del lavorare in uno sporco edificio circondato da altri edifici egualmente sporchi. Questi inconvenienti non possono essere valutati soltanto in termini di denaro, anche se non abbiamo statistiche che ci permettano di calcolare sino a che punto i progressi sul piano produttivo siano stati bilanciati dal brutale sacrificio di un ambiente vitale.
Mentre le fabbriche erano situate di solito vicino a un fiume, o a una linea ferroviaria parallela a un fiume (eccezion fatta per i casi in cui un terreno piano invitava a una maggiore espansione), non ci furono interventi dall'alto per concentrarle in una zona particolare, per segregare le industrie più nocive o più rumorose dalle abitazioni umane o per isolare destinandole a fini domestici le aree adiacenti più adatte. Soltanto la «libera concorrenza» determinava la posizione di questi edifici, senza che nemmeno si pensasse alla possibilità di una pianificazione funzionale; tanto che nelle città industriali continuò e aumentò il guazzabuglio delle funzioni industriali, commerciali e domestiche.
Nelle regioni dalla topografia irregolare, per esempio nelle valli dell'altopiano degli Allegani, poteva aversi una certa zonizzazione naturale, dal momento che soltanto i letti dei fiumi offrivano spazio sufficiente all'espansione di una grande fabbrica; anche se proprio per questa disposizione, sulle case dei sottostanti pendii pesava una quantità massima di effluvi nocivi. In tutti gli altri casi le abitazioni venivano spesso collocate negli spazi lasciati liberi dalle fabbriche, dai capannoni e dai parchi di smistamento. Chi si preoccupava per la sporcizia, per il rumore o per le vibrazioni era considerato un effeminato. Le case degli operai, e spesso anche quelle dei borghesi, erano costruite muro a muro con un'acciaieria, una tintoria, un'officina del gas o una trincea ferroviaria. Venivano edificate, abbastanza frequentemente, su terreni pieni di ceneri, di frammenti di vetro e di rottami, dove neppure l'erba riusciva a mettere radici; sul margine di un luogo di scarico o accanto a una grande pila di carbone e di scorie; e giorno dopo giorno il fetore dei rifiuti, il denso e fosco fumo delle ciminiere, il rumore delle martellate o il rombare delle macchine accompagnavano la routine familiare.
In questo nuovo contesto la città consisteva di sparsi frammenti di terra, con forme strane e vie o corsi caotici rimasti liberi tra le fabbriche, le ferrovie, gli scali merci e i mucchi di rifiuti. Al posto di una regolamentazione o di una pianificazione municipale, era la ferrovia che definiva il carattere e fissava i limiti della città. Fatta eccezione per certe parti d'Europa dove vecchi regolamenti segregarono fortunatamente le stazioni ferroviarie ai margini della città storica, la ferrovia fu autorizzata, o meglio fu invitata, a tuffarsi nel cuore stesso della città e a creare nelle sue zone centrali una distesa di scali merci e di stazioni di smistamento, economicamente giustificabile soltanto in aperta campagna. Tutto questo spezzò le arterie naturali della città creando una barriera invalicabile tra vasti quartieri urbani, che in certi casi, quello per esempio di Filadelfia, può essere definita un'autentica muraglia cinese.
La ferrovia comunque non portò nel cuore della città soltanto rumore e fuliggine, ma anche le fabbriche industriali e le deprimenti abitazioni che potevano prosperare soltanto nell'ambiente da essa prodotto. Soltanto il potere ipnotico di una nuova invenzione in un'epoca ciecamente innamorata di tutte le nuove invenzioni, avrebbe potuto produrre questa folle immolazione alle ruote di una sbuffante locomotiva. Tutti gli errori urbani possibili vennero commessi dai nuovi ingegneri ferroviari, per i quali il movimento dei treni era più importante degli oggetti umani che tale movimento permetteva di raggiungere. Lo spazio sciupato dai parchi di smistamento nel cuore della città non fece che incoraggiare la sua ulteriore espansione in larghezza, fatto questo che, incrementando il traffico ferroviario, rimunerava con maggiori profitti i misfatti così compiuti.
Questa deteriorizzazione dell'ambiente si è talmente diffusa e nel giro di un secolo gli abitanti delle grandi città si sono talmente induriti che persino le classi ricche, le quali presumibilmente avrebbero potuto permettersi qualcosa di meglio, sino ad oggi hanno spesso accettato il peggio con indifferenza. In quanto alle abitazioni, l'alternativa era semplice. Nelle città industriali sviluppatesi da centri più antichi, gli operai venivano spesso alloggiati trasformando le vecchie case per una sola famiglia in casermoni d'affitto. In tali dimore rimesse a nuovo, ogni locale ospitava ora un'intera famiglia, e questa densità d’occupazione permase a lungo da Dublino a Glasgow a Bombay. Il sovraffollamento dei letti - da tre a otto persone di età diverse dormivano sullo stesso pagliericcio - aggravava spesso le condizioni di queste stie umane. All'inizio dell'Ottocento, secondo un certo dottor Willan che scrisse un libro sui malanni di Londra, tutto questo aveva provocato nelle classi povere un incredibile stato di depressione fisica. L'altro tipo di abitazione offerto alla classe operaia era fondamentalmente una standardizzazione di queste condizioni degradate, ma aveva un difetto in più: i progetti delle nuove case e i materiali di costruzione di solito non erano decorosi come quelli delle vecchie case borghesi: ci si limitava a costruire alla bell'e meglio dalle fondamenta in su.
Nei quartieri vecchi e nuovi si raggiunse un culmine di sporcizia e di fetore, forse persino superiore a quello delle baracche dei più miseri servi medievali. È quasi impossibile elencare obiettivamente le caratteristiche di queste case senza essere accusati di perverse esagerazioni. Ma quelli che parlano con disinvoltura dei progressi urbani realizzati in questo periodo e del presunto aumento del tenore di vita sono ben lontani dalla realtà dei fatti: attribuiscono generosamente alla città nel suo complesso benefici di cui godeva soltanto la privilegiata minoranza borghese, e alla situazione di partenza quei progressi che generazioni di provvedimenti legislativi e di massicce opere d'ingegneria sanitaria hanno finalmente realizzato.
In Inghilterra, per cominciare, migliaia di queste nuove abitazioni operaie, in città come Birmingham e Bradford, erano costruite una addosso all'altra (ne esistono ancora molte). A ogni piano dunque, due stanze su quattro non ricevevano direttamente la luce del sole e non erano per niente ventilate. Non esistevano spazi aperti se non uno stretto corridoio tra il retro di una casa e quello della casa accanto. Mentre nel Cinquecento in molte città inglesi il gettare l'immondizia per strada era considerato un reato, in questi centri proto-industriali era questo il metodo abituale per sbarazzarsene. Essa poi rimaneva lì, per quanto sporca e ripugnante potesse essere, «finché l'accumulazione non induceva qualcuno a portarsela via come letame», materia questa che certo non mancava negli affollati quartieri nuovi della città. Le latrine, indescrivibilmente fetide, erano solito in cantina; era anche usanza comune tenere porcili sotto le case e i maiali ripresero ad aggirarsi per le strade, come nelle grandi città non facevano più da secoli. C'era persino una spaventosa scarsità di gabinetti: il Report on the state of large towns and populous districts del 1845 afferma che «in un quartiere di Manchester, nel 1843-44, ai bisogni di oltre 7000 abitanti provvedevano complessivamente 33 cessi, cioè uno ogni 212 persone».
Tuttavia, nonostante questo basso livello di edilizia e questi vertici di sozzura, in molte città non si riusciva a costruire case a sufficienza; e la situazione divenne ancora peggiore. Si incominciarono a utilizzare le cantine come locali d'abitazione. A Liverpool un sesto della popolazione viveva in questi sotterranei, e le altre città portuali non erano in condizioni molto migliori: Londra e New York potevano addirittura gareggiare con Liverpool; nella capitale inglese ancora nel 1930 c'erano 20 mila seminterrati abitati che i medici giudicavano inadatti all'occupazione umana. Sporcizia e congestione, già di per se stesse un grosso guaio, provocarono altri flagelli: i topi che diffondevano la peste bubbonica, le cimici che infestavano i letti e tormentavano i dormienti, i pidocchi che trasmettevano il tifo petecchiale, le mosche che calavano indifferentemente sulle latrine o sul cibo degli infanti. Inoltre all'umidità dei locali si associava quella dei muri formando così un terreno di coltivazione ideale per i batteri, anche perché le stanze eccessivamente affollate accrescevano al massimo le possibilità di contagio.
Se la mancanza di impianti idraulici e di norme igieniche produceva in questi nuovi quartieri urbani zaffate di spaventoso fetore, e se gli escrementi sparsi un po' ovunque, uniti alle infiltrazioni dei pozzi locali, determinavano la diffusione della febbre tifoide, la mancanza d'acqua aveva conseguenze ancor più raccapriccianti. Nelle grandi capitali dove sopravvivevano certe vecchie tradizioni municipali, non si presero provvedimenti per rifornire adeguatamente d'acqua i quartieri nuovi. Nel 1809, quando Londra aveva circa un milione di abitanti, la maggior parte di costoro trovavano acqua soltanto nei seminterrati delle case. In certi quartieri essa veniva distribuita tre giorni alla settimana. E benché le condutture di ferro fossero apparse per la prima volta nel 1746, in Inghilterra entrarono nell'uso generale soltanto nel 1817 quando uno speciale decreto impose che entro dieci anni tutte le nuove
condutture venissero fatte con questo materiale.
Dalle nuove città industriali erano del tutto assenti anche i più elementari e i più tradizionali dei servizi municipali. Interi quartieri non erano a volte in grado di attingere acqua neppure dai pozzi, e certe volte i poveri andavano di casa in casa nei quartieri signorili a mendicare acqua, come avrebbero mendicato pane durante una carestia. Con questa scarsità d'acqua per bere e lavarsi non fa meraviglia che s'accumulasse la sporcizia. Abbondavano per esempio, nonostante il loro fetore, i canali di scarico scoperti. E se le famiglie erano trattate in questo modo, non c'è quasi nemmeno bisogno di ricorrere ai documenti per scoprire come campava il manovale avventizio. A Manchester, secondo statistiche della polizia, c'erano nel 1841 circa 109 pensioni dove dormivano indiscriminatamente individui d'ambo i sessi, e 91 asili per mendicanti. «Playfair disse nel 1842 alla Health of Town Commission che in tutto il Lancashire c'era soltanto una città, Preston, con un parco pubblico, e una, Liverpool, con bagni pubblici».
Queste erano praticamente le condizioni di tutti gli operai dei nuovi centri industriali, una volta che il nuovo regime si fu consolidato. Circostanze locali tuttavia permettevano a volte di sfuggire a questi eccessi di sozzura: gli alloggi degli operai di Manchester, New Hampshire, per esempio erano assai migliori, e nelle città industriali d'America più legate alle loro origini rurali, soprattutto nel Middle West, c'era per i lavoratori almeno un po' di spazio libero e un piccolo giardino. Ma questi e altri eventuali miglioramenti toccavano soltanto singoli aspetti di una situazione che nel suo complesso era decisamente peggiorata in ogni luogo.
Non solo le nuove città erano brutte e squallide, ambienti assolutamente inadatti alla vita umana, persino a un livello fisiologico elementare, ma il sovraffollamento dei quartieri poveri si estendeva agli alloggi borghesi e alle caserme, coinvolgendo anche classi non direttamente sfruttate a fini di profitto. La signora Peel cita una sontuosa dimora vittoriana dove cucina, dispensa, sala della servitù, stanza della governante e camera da letto del maggiordomo e dei domestici erano tutte situate in cantina; due stanze sulla facciata e due sul retro davano su profondo seminterrato, e le altre erano «illuminate» e «ventilate» da pannelli di vetro aperti nei muri interni. Abitazioni egualmente deplorevoli furono costruite verso la metà del secolo anche a Berlino, Vienna, Parigi e New York. Le nuove case d'appartamenti per la borghesia avevano cortili posteriori profondi e senz'aria, con quasi tutte le caratteristiche di una cantina anche quando tecnicamente erano a livello del suolo. Soltanto le città «arretrate» sfuggivano a queste infamie.
(Lewis Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1977, pp. 571-578)