Nel luogo più rappresentativo dell'industria capitalistica, la fabbrica, il primo secolo di esistenza aveva portato modificazioni di spiccato rilievo. Le dimensioni delle aziende si erano accresciute enormemente anche se, nell'insieme, non erano certo le più grandi a prevalere. L'organizzazione del processo produttivo aveva compiuto passi da gigante. Libri come La filosofia delle macchine di Andrew Ure e L'economia delle manifatture di Charles Babbage, nonché una serie in costante aumento di manuali specializzati, avevano codificato una spinta razionalizzatrice poderosa ed esercitato insieme una funzione didattica di incommensurabile efficacia. Una sequela ininterrotta di invenzioni e di perfezionamenti tecnici nei settori più disparati aveva incrementato potentemente il rendimento del lavoro.
I rapporti fra i frequentatori della fabbrica avevano subito tuttavia una evoluzione assai meno vistosa. I proprietari erano rimasti naturalmente tali, senza compromissioni e, nonostante la già rilevabile inclinazione dei pubblici poteri a porre vincoli e a dettare norme di comportamento, senza remore sostanziali. Gli operai continuavano a vendere la loro forza-lavoro come in precedenza.
Certo, almeno nella patria di origine dell'industria, gli orari erano diminuiti e soltanto di rado raggiungevano le 14-16 ore dei decenni precedenti: già nel 1847 era stata approvata una legge che fissava ad un massimo di 10 ore e mezza il lavoro effettivo di donne e ragazzi; il lavoro in miniera era stato regolamentato; inchieste parlamentari e la costituzione di un corpo di ispettori di fabbrica consentivano di denunciare, e magari soltanto di denunciare, le situazioni più aberranti. Che non erano poi tanto eccezionali, se documenti contemporanei raccontano di officine e capannoni scarsamente aerati, gelidi d'inverno, insopportabilmente caldi in estate; di una atmosfera appesantita dai miasmi della polvere di cotone frammischiata, nelle ore notturne, al fumo delle candele; di assenza pressoché totale di misure di sicurezza contro gli infortuni; di ritmi di lavoro elevati sino all'inverosimile; di una disciplina rigorosissima, quasi militaresca. Né sembra che, nella media, le paghe fossero salite in modo apprezzabile e che il salario parzialmente in natura (truck-system) fosse scomparso del tutto.
Usciti dalla fabbrica, i lavoratori si ritrovavano in un ambiente che non li compensava davvero delle fatiche e dei disagi sopportati durante la giornata. Nei primi decenni della rivoluzione industriale si era manifestato un fenomeno senza precedenti, la crescita dirompente dei centri urbani indotta in parte non trascurabile proprio dalla localizzazione delle officine. Gli studiosi sono concordi nel riconoscere che, in quella fase, si trattò di una crescita abnorme, incontrollata e bipolare. Da un lato si sviluppava il centro con le sue strade alberate, i negozi, gli uffici e le abitazioni confortevoli. Dall'altro, oggetto essi pure di una sfrenata speculazione edilizia, sorgevano i quartieri operai, gli slums della Londra orientale e di New York, la «piccola Irlanda» di Manchester, i wynds di Glasgow, i sobborghi di Dusseldorf, le courées di Roubaix, quartieri come «Croix-Rousse» a Lione e Saint Sauver a Lilla. Ma il ritmo di accrescimento dell'armata industriale surclassava quello pur vertiginoso della speculazione: nel 1848 due milioni di inglesi vivevano ancora nelle «case di lavoro delle comunità». Il loro desiderio di avere una abitazione propria, tuttavia, doveva essere in qualche modo frenato dalla osservazione delle condizioni nelle quali si trovavano i loro più «fortunati» colleghi di sventura. Ancora nel 1860, in quella Manchester i cui orrori erano stati descritti qualche tempo prima da Engels, non era difficile trovare 15 persone costrette a vivere in un solo ambiente. E si trattava normalmente di costruzioni prive di fondamenta, intrise di umidità, fetide, senza servizi igienici e senza il pur minimo conforto che, nel loro insieme, formavano appunto i «quartieri operai» con strade né pavimentate né illuminate, immersi nella sporcizia del bestiame che vi pascolava, e nei quali non v'era traccia di una rete pur rudimentale di fognature. Non sorprende perciò che, di recente, si sia potuto definire quel mondo come un «mondo di malati».
Nonostante la loro durissima condizione, o forse proprio a causa di essa, gli operai della prima generazione acquisirono con relativa lentezza una coscienza sufficientemente precisa del proprio essere collettivo, o, come fu detto più tardi, una coscienza di classe. La provenienza contadina, la subordinazione al paternalismo padronale, la modestia dei loro orizzonti, la ancora ragguardevole prevalenza al loro interno dei vecchi lavoranti «dalle mani d'oro» che guardavano con sospetto alle nuove tecnologie, potevano generare rivolte improvvise, scoppi d'ira diffusi quanto poco durevoli. Certo né le distruzioni di macchine «ladre di lavoro» verificatesi agli albori della rivoluzione industriale né i posteriori e più celebri moti che si dissero capeggiati da John Ludd (di qui il vocabolo
«luddismo») erano soltanto questo. E meno ancora lo erano le manifestazioni di Peterloo del 1819, le insurrezioni di Parigi del 1830 e dei canuts (lavoratori della seta) di Lione del 1831 e del 1834, le rivolte dei tessitori slesiani del 1844 immortalate da Hauptmann, in una sua notissima tragedia. La strada maestra, lunga e tortuosa, verso la consapevolezza di sé della nuova classe operaia di fabbrica non poteva non essere tuttavia che quella ricostruita dallo storico americano Witt Bowden qualche decennio fa, in un brano meritevole di essere citato: «gli operai furono sottoposti ad una comune disciplina amministrativa, furono ridotti ad un comune livello di salari e di condizioni di lavoro, che era in netto contrasto con quello dei loro padroni. Il lavoratore singolo compiva poi, e sempre più vistosamente, atti frazionati e in sé quasi insignificanti che significativi diventavano - e davano un risultato concreto - solo in correlazione ad atti compiuti da un certo numero di suoi compagni. Così, tanto rispetto al lavoro quanto alle condizioni di vita, il lavoratore veniva sempre più a confondersi in un gruppo. Questa realtà era così forte che rese infine inevitabile lo svilupparsi di una coscienza di gruppo».
Naturalmente anche il persistente malessere giocò la sua parte. Come la loro parte giocarono sia la predicazione e l'operosità appassionato di filantropi e di intellettuali di punta, sia l'intervento strumentale degli interessi conservatori (grande proprietà terriera, nobiltà, alta burocrazia, chiese) che, in nome di un dichiarato umanitarismo, agivano nei Parlamenti e fuori per contrastare l'influenza economica, sociale e politica in ascesa della borghesia industriale adoperando le armi più disparate: ivi comprese la denuncia della drammatica condizione operaia e le misure per alleviarla. Senza contare la crescente alfabetizzazione dei lavoratori e la loro tradizione associazionistica nelle corporazioni o nelle società di mutuo soccorso.
Va da sé che il passaggio dalla coscienza di gruppo all'organizzazione autonoma di resistenza non fu in ogni caso né facile né lineare. Se si escludono gli Stati Uniti d'America, associazioni del genere erano vietate: in Francia dalla legge Le Chapelier del 1791, in Inghilterra dai «Combinations Acts» del 1799 e del 1800, altrove, più o meno espressamente, dal Codice Penale.
Le prime leghe di operai di fabbrica con finalità di resistenza sorsero negli Stati Uniti verso il 1820. Almeno quelle, come dire, non vietate dalla legge, perché in Inghilterra è abbastanza sicuro che ve ne fossero già, e molte, anche in precedenza. Con l’abolizione dei «Combinations Acts», avvenuta fra il 1824 ed il 1825, la spinta all'organizzazione operaia assunse nell'isola uno slancio irresistibile, ma al tempo stesso si venne profilando un tipo di sindacalismo che culminerà nel 1851 con la fondazione della Amalgamated Society of Engineers («Associazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici»), definita di «nuovo modello» perché riuniva soltanto gli operai qualificati sulla base del mestiere (in parallelo nasceva anche il movimento cooperativo, la cui prima manifestazione era stata quella, famosissima, di Rochdale del 1844).
Uno dei fatti di maggior rilievo della storia del secolo XIX fu certamente l'accostamento della classe operaia di fabbrica alla lotta politica. Già nell'Inghilterra di fine '700 i simpatizzanti del giacobinismo francese avevano costituito le «Corresponding societies» (Società di corrispondenza) aperte anche ai lavoratori, ma è del tutto probabile che la prima iniziativa autonoma in tal senso sia stata quella della «Mechanics Union of Trade Association» sorta a Filadelfia nel 1827 seguita da diverse altre, la più importante delle quali fu la creazione a New York nel 1829 del «Workingmen's Party» (Partito Operaio: si trattava in realtà di un movimento radicale, ma che adottasse questo nome era altamente significativo) nel quale primeggiarono figure notissime in America come Fanny Wright, George Henry Evans ed il meccanico Thomas Skidmore. Fu una esperienza effimera. Il che, in termini puramente esteriori, deve pur dirsi del grande moto popolare che investì l'Inghilterra a cavaliere del 1840 e noto sotto il nome di «cartismo», dalla carta rivendicativa che ne costituì la piattaforma (con i suoi famosissimi sei punti: suffragio universale; parlamenti annuali; abolizione del censo per i candidati al Parlamento; voto segreto; stipendio ai deputati; collegi elettorali uguali). Ma è proprio in questi sussulti, e nei movimenti popolari organizzati prodottisi con la rivoluzione e con il predominio francese in varie parti d'Europa, ed in questo periodo, che vengono poste le basi per trasformare la lotta politica in lotta di masse organizzate: appunto, uno degli eventi di maggior rilievo nella storia del secolo XIX.
(Giorgio Mori, La nascita dell’industria, Le Monnier, Firenze, 1978, pp. 16-20)