Perché la Rivoluzione industriale esplose proprio in Gran Bretagna e proprio in quel momento? La domanda è in realtà duplice.
Primo: come e perché un qualunque paese squarcia la cappa della consuetudine e del sapere convenzionale e passa a questo nuovo modo di produzione? Dopotutto, la storia conosce altri esempi di meccanizzazione e di utilizzo di energia inanimata senza che queste abbiano innescato una rivoluzione industriale. Si pensi alla Cina dei Sung (filatura della canapa, metallurgia), all'Europa medievale (tecnologie per mulini ad acqua e a vento), all'Italia dal XVI al XVII secolo (torcitura della seta, cantieristica navale), all'Olanda dell'«Epoca d'oro». Perché, dunque, nel XVIII secolo?
Secondo: perché a lanciarla fu la Gran Bretagna e non un altro paese?
Le due domande sono strettamente correlate, dal momento che per dare risposta all'una c'è bisogno dell'altra. La storia funziona così.
Per rispondere alla prima, porrei l'attenzione sui concetti di accumulazione (il concentramento di conoscenza ed esperienza) e di sfondamento (il raggiungimento e superamento di una determinata soglia). […] Certo, in Europa come dappertutto scienza e tecnologia conobbero i loro alti e bassi in un perpetuo altalenarsi di aree più e meno forti, riflesso delle casualità della politica e del genio individuale. Ma se dovessi scegliere gli elementi di successo distintamente europei, indicherei tre fattori:
1) la crescente autonomia dell'indagine intellettuale.
2) lo sviluppo di tesi e antitesi nell'ambito di un metodo comune e implicitamente antagonistico, vale a dire la creazione di una dialettica fondata sulle prove e riconosciuta, adottata e compresa al di là di qualunque confine nazionale e culturale;
3) l'invenzione dell'invenzione, vale a dire la standardizzazione della ricerca e la sua diffusione. […]
E in Europa perché la Gran Bretagna? Perché non un altro paese?
A un certo livello rispondere a tale domanda non è difficile. All'inizio del XVIII secolo la Gran Bretagna era di gran lunga avanti a tutti, semenzaio di crescita; nel ricorso al combustibile da fossili, nella tecnologia di quei settori cruciali che avrebbero costituito il nerbo della Rivoluzione industriale: tessili, ferro, energia e forza motrice. A tutto ciò bisogna poi aggiungere l'efficienza dei trasporti e del sistema commerciale agricolo.
I vantaggi derivanti da una maggiore efficienza dell'agricoltura sono ovvi. Da un lato, l'accresciuta produttività del settore alimentare libera manodopera per altre attività: industria manifatturiera, servizi e via dicendo. Dall'altro, l'espansione di questa manodopera genera un sempre crescente fabbisogno alimentare il quale, se non può essere soddisfatto con le risorse interne, impone di stornare una quota di reddito e di ricchezza in tale direzione. (Certo, la necessità di importare cibo potrebbe promuovere lo sviluppo delle esportazioni come merce di scambio e così stimolare l'industria; ma non sempre il bisogno stimola una migliore performance. Alcuni dei paesi più poveri del mondo erano un tempo autosufficienti sul piano alimentare, mentre oggi dipendono fortemente dalle importazioni, le quali prosciugano risorse e creano debito, mentre il benché minimo mutamento nel livello delle precipitazioni od ostacolo al commercio produce veri e propri disastri. Nel peggiore dei casi, essi passano di carestia in carestia ciascuna delle quali lascia dietro di sé una scia di sfinimento e malattie e un livello di dipendenza ancora maggiore). Difficile dunque esagerare l'importanza del progresso agricolo nell'industrializzazione della Gran Bretagna. Il processo ebbe inizio con la precoce emancipazione dei servi e la commercializzazione sia della coltivazione che della distribuzione. La diffusione dell'orticoltura (frutta e ortaggi) intorno a Londra nel XVI secolo e l’adozione del modello di agricoltura mista (grano e bestiame) testimoniano della sensibilità tanto dei proprietari terrieri quanto dei fittavoli. Tale sviluppo consentì diete più ricche e variegate, con una percentuale straordinariamente alta di proteine animali. Un ulteriore contributo fu l'adozione di nuove tecniche di irrigazione, fertilizzazione e rotazione dei campi, molte delle quali introdotte da immigrati provenienti dai Paesi Bassi. L'Olanda era all'epoca l'epitome del progresso agricolo, una terra creata dall'uomo (strappata al mare) grazie al proprio ingegno e caparbietà e tenuta di conseguenza in grande cura. Già nel Medioevo gli olandesi andavano insegnare agronomia in tutta Europa, fino ai confini con i paesi slavi. Nel XVI e XVII secolo gli inglesi ne furono tra i principali beneficiari, e le iniziative si susseguirono a ritmo incalzante. Poi, nel XVIII secolo esplose il fenomeno delle enclosures, il passaggio dalle restrizioni collettive dei campi aperti alla libertà delle tenute concentrate e circoscritte da recinzioni o siepi. Gli storici hanno discusso a luogo sul contributo offerto da tale processo, la logica tuttavia suggerisce che, dati i costi, dovette essere notevole.
Diversamente dalla maggior parte degli altri paesi, quindi, il settore agricolo britannico non fu la roccaforte del conservatorismo, ma al contrario - al pari di tutti gli altri settori - un costante stimolo all'innovazione. L'agricoltura rendeva, e siccome rendeva anche bene divenne una sorta di passione, non solo per gli agricoltori, ma per i ricchi e aristocratici latifondisti, i quali non si vergognavano affatto di infangarsi gli stivali e di mischiarsi con la plebe in occasione delle varie fiere e mercati di bestiame. Inevitabilmente, in una società come questa, così attenta al denaro e al mercato, fecero la loro comparsa società agricole i cui esponenti «dediti alle migliorie», vano incontrarsi e confrontarsi e in cui la letteratura agronomica proliferò al fine di propagare le tecniche migliori. Questa forma dinamica di mercantilismo promosse un approccio integrato alla gestione delle tenute: tutte le risorse erano importanti, quelle sopra come quelle sotto il terreno; e in Gran Bretagna, diversamente dal resto d'Europa, le risorse del sottosuolo appartenevano al proprietario della terra, non alla corona. Un ulteriore stimolo all'operosità
Al tempo stesso, i britannici andavano compiendo grandi progressi nel campo dei trasporti via terra e via mare. Nuove strade e canali a pedaggio, principalmente al servizio di industrie e miniere, spianarono la strada a risorse preziose, collegarono la produzione ai mercati, facilitarono la divisione del lavoro. Anche altri paesi europei impegnati sullo stesso versante, ma in nessuno di essi i progressi compiuti furono così diffusi e significativi come in Gran Bretagna. Il motivo è semplice: in nessun altro luogo strade e canali erano di norma opera di imprese private, e dunque rispondenti a bisogni pratici (anziché a motivi di prestigio o d'ordine militare) e utili per gli utenti. Ecco perché Arthur Young, agronomo e viaggiatore alcune delle ampie e ben fatte strade francesi, ma ne deplorò i servizi di ricezione e ristorazione. La corona francese aveva costruito alcune ammirabili strade pubbliche, tanto per promuovere il traffico quanto per facilitare il controllo del territorio, ma Young le trovò desolatamente vuote. Gli investitori britannici ne avevano costruite molte di più, per motivi esclusivamente di profitto, e le avevano riempite di pensioni dove i viandanti potevano mangiare e dormire.
Queste strade (e canali) accelerarono la crescita e la specializzazione. Fu forse questo l'aspetto che più di ogni altro impressionò Daniel Defoe nel suo straordinario Tour Through the Whole Island of
Great Britain (1724-26): le colture locali (luppolo per la birra, pecore per la lana, bestiame da allevamento) e le specialità regionali (articoli in metallo a Sheffield, Birmingham e nella zona industriale dello Staffordshire; lane nell'Anglia orientale e nell'Inghilterra occidentale; tessuti pettinati nell'area di Bradford, lane in quella di Leeds; cotoni in quella di Manchester; ceramica nel Cheshire, e così via). Non sorprende che Adam Smith enfatizzasse fattori quali la dimensione del mercato e la divisione del lavoro: il suo paese natio gli forniva il miglior esempio in tal senso.
Illustrare tutto ciò significa tuttavia dire semplicemente il cosa e il come, non il perché; significa descrivere, non spiegare. Questo trasformazione, questa rivoluzione, non fu qualcosa di casuale, un insieme di «fattori che semplicemente si accavallano». Di motivi se ne possono trovare a iosa (nelle cose grandi la storia aborre la casualità). La stessa precoce superiorità tecnologica della Gran Bretagna in questi settori chiave fu una conquista: non un dono di Dio, non l'effetto di pura casualità, ma il frutto del lavoro, dell'ingegnosità, della fantasia e dell'intraprendenza.
Il punto è che la Gran Bretagna aveva sì le qualità necessarie, ma si dette anche da fare. Per capire ciò, dobbiamo tener presenti non solo i vantaggi materiali (anche altre società erano ben attrezzate per industrializzarsi, ma impiegarono anni prima di seguire l'esempio britannico), ma anche i valori non materiali (la cultura) e le istituzioni.
Questi valori e istituzioni ci sono così familiari (ecco perché li chiamiamo moderni) che siamo indotti a darli per scontati; e invece rappresentano un grande spartiacque rispetto a più antiche norme e sono stati accettati e adottati, in tempi e luoghi diversi, solo al termine di una tenace resistenza. Anche oggi, il vecchio ordine non è affatto scomparso del tutto.
[…]
Tanto per iniziare, la Gran Bretagna ebbe da subito il vantaggio di essere una nazione. Con questo termine intendo designare non semplicemente il regno di un dominatore, non semplicemente uno Stato o un'entità politica, ma un'unità autocosciente caratterizzata da un senso di identità e appartenenza comune e da una parità di status civile. Le nazioni possono conciliare responsabilità sociale e aspirazioni e iniziative individuali, e produrre risultati migliori mediante l'unione di sinergie. L'intero è qualcosa di più della semplice somma delle parti. I cittadini di una nazione risponderanno meglio agli stimoli e alle iniziative dello Stato, e questi da parte sua saprà meglio cosa fare e come, in concordanza con le forze sociali attive del paese. Le nazioni possono competere.
La Gran Bretagna per di più non era una nazione qualsiasi, ma una nazione industriale precocemente moderna. Ricordiamo che il tratto distintivo di siffatta società è la capacità di trasformarsi e adattarsi a nuovi modi e nuove realtà, cosicché il significato dei termini «moderno» e «industriale» è in perenne evoluzione. Un elemento chiave di tale evoluzione è la sempre maggiore libertà e sicurezza godute dalla popolazione. Paradossalmente, oggi i britannici si autodefiniscono sudditi della corona, sebbene siano in realtà da lungo tempo, più a lungo di qualsiasi altra nazione, dei cittadini. Niente ha contribuito maggiormente a stimolare il loro spirito di iniziativa.
[…]
Quanto lontano ricercare le origini della precocità sociale britannica è oggetto di disputa storica. Uno studioso si spinge fino al Medioevo (prima del 1500) e a quella che definisce l'ascesa dell'individualismo. Era questa una società che si liberò del fardello della schiavitù, che sviluppò una popolazione di coltivatori anziché di contadini, che introdusse l’industria e il commercio nelle campagne, sacrificò la consuetudine al profitto e la tradizione al vantaggio competitivo. Con risultati ambivalenti: qualcuno finì in miseria, ma nel complesso i redditi aumentarono; molti si ritrovarono senza terra, ma la mobilità fu accresciuta e la coscienza sociale furono accresciute.
L'Inghilterra diede al suo popolo libertà d'azione. Le libertà politiche e civili inizialmente conquistate dai nobili (Magna Charta, 1215) vennero estese - tramite l'esercizio della guerra, della consuetudine e della legge - alla gente comune. A tutti questi successi si possono porre varie obiezioni: l'Inghilterra era tutt'altro che perfetta. Aveva i suoi poveri (che ci accompagnano sempre), molto più numerosi dei ricchi. Conosceva abusi di potere e prevaricazioni nel godimento delle libertà, distinzioni di classe e di status, concentrazioni di ricchezza e di influenza, sacche di privilegio e nepotismo. Ma tutto è relativo, e a confronto con le popolazioni d'oltremanica, gli inglesi erano gente libera e fortunata.
Inoltre, avevano piena coscienza della loro condizione. La loro prima grossa esperienza di vita in altre terre giunse con la guerra dei Cent'anni (XIV e XV secolo) in Francia, dove i piccoli proprietari terrieri britannici tennero egregiamente testa al fior fiore della cavalleria francese. Tra i partecipanti alla campagna ricordiamo: John Fortescue, in seguito sir John e primo giudice della Corte Suprema della «Common Law». Negli anni Settanta del Quattrocento sir John scrisse un libro, The Governance of England, in cui parlò del malgoverno e della miseria dilaganti in Francia. Il re francese, scrisse, fa quello che gli pare e ha immiserito il suo popolo al punto che questo riesce a malapena a sopravvivere. Bevono acqua (anziché birra); mangiano mele con pane nero (anziché bianco); non hanno carne, tuttalpiù un po' di lardo o di trippa, quanto rimane degli animali macellati per i nobili e i mercanti. Non indossano indumenti di lana, ma un camiciotto di tela grezza e calzoni anch'essi di tela e che non arrivano al ginocchio, cosicché se ne vanno in giro con le cosce nude. Le loro mogli e figli camminano scalzi. Devono accudire la casa, lavorare e cercare da mangiare. «Si irrachitiscono e indeboliscono, incapaci di combattere e di difendere il regno». Non hanno armi, né soldi per comprarne. «Ma in verità vivono nella più nera miseria e povertà, pur abitando nel regno più fertile del mondo».
Certo, questo è un parlare da inglesi (hanno cominciato presto!), e si può perdonare all'autore il tono entusiastico con cui vanta la superiorità del proprio paese. Proprio in questo, infatti, consiste l'essenza del nazionalismo: nella percezione della propria identità e superiorità, e l'Inghilterra fu uno dei primi paesi al mondo a coltivare questo nuovo sentimento (si legga Shakespeare), il quale differiva fortemente dal senso di identificazione localistica del servo medievale col suo piccolo pays, o dalla stolida sottomissione del ryot asiatico.
Non erano tuttavia solo gli inglesi a lodare l'Inghilterra. Qualunque straniero si recasse sull'isola esprimeva invariabilmente sentimenti di rispetto e ammirazione. Per alcuni asiatici tutti gli occidentali sembravano uguali, ma gli europei vedevano le differenze eccome. I visitatori restavano estasiati dall'alto tenore di vita delle campagne inglesi cottage in mattone, tetti di pergolato, vestiti di lana, scarpe di cuoio, pane bianco (possiamo tracciare l'aumento dei redditi dell'Europa in via di industrializzazione attraverso l'andamento del pane bianco). Vedevano donne in abiti di seta stampata e cappellino; cameriere dall'abbigliamento cosi simile alle nobildonne che allorquando si recavano in visita da qualcuno restavano interdetti dinanzi a chi apriva loro la porta e non sapevano come presentarsi. Vedevano poveri, ci dicono, ma nessun misérable, niente facce scavate; mendicanti sì, ma nessuno che «fosse privo di camicia, scarpe e calze». Sembra che gli inglesi fossero orgogliosi dei propri mendicanti, che consideravano persone intente nell'esercizio di un vero e proprio mestiere.
Alla condizione più che dignitosa delle classi inferiori, che consentiva loro anche qualcosa in più dello stretto necessario, dobbiamo poi aggiungere la ricchezza - straordinaria per l'epoca - del vasto ceto medio: mercanti e negozianti, manifatturieri e banchieri, uomini di legge e altre professioni. […]
Il contributo offerto al progresso tecnologico dall'alto livello di consumo colpì gli osservatori dell'epoca, in numero e misura sempre maggiore via via che il passo dei britannici andò acquisendo speditezza. Senza seguire alcun corso di economia keynesiana, i mercanti francesi capirono che la meccanizzazione produceva salari alti, che i salari alti si traducevano in un aumento della domanda di manufatti e che una domanda sostenuta portava maggiore prosperità. «E così, grazie a un sistema che sembra paradossale, gli inglesi sono diventati ricchi consumando». Paradossale davvero: tali dispendiose abitudini infatti contro la saggezza popolare, la quale predicava frugalità e temperanza, consuetudini congeniali ai contadini francesi costretti all'avarizia. Uno dei risultati ottenuti fu una manifattura volta al grande mercato nazionale e internazionale e incentrata su merci standardizzate a basso prezzo, esattamente il tipo di manifattura che ben si prestava alla produzione meccanizzata. «Gli inglesi», scrisse il marchese Charles de Biencourt, «hanno il vezzo di fare le cose per il popolo, anziché per i ricchi», cosa che garantiva loro un mercato ampio e stabile.
Questo mercato ha attratto di recente grande attenzione, non solo di per sé, ma come cartina di tornasole del progresso tecnologico e di più generali mutamenti sociali, in particolare la crescente importanza delle donne in quanto consumatrici. Ciò che tali studi mettono in luce è un mercato dinamico per tutti i tipi di tessuti, vestiti, orologi da tavolo e da tasca, articoli in ferro e da cucito, e soprattutto articoli vari, termine generico che abbracciava tutti quegli accessori personali (pettini, secchi, bottoni, ornamenti) che esulano dallo stretto necessario e fanno invece leva sulla vanità e la civetteria. Molti di questi prodotti erano articoli semidurevoli e venivano trasmessi nei testamenti o come regali. La loro diffusione era un riflesso non solo di redditi più elevati, ma di un sistema di distribuzione più veloce e di nuove tecniche di produzione (divisione del lavoro, macchine ripetitive) che si traducevano in costi e prezzi più bassi.
Inutile dire che tali prodotti, sebbene diretti principalmente al mercato interno, approdarono anche nelle colonie e nei paesi stranieri (piccoli oggetti di alto valore in proporzione al peso e al volume sono ideali per il contrabbando. Il miglior esempio sono gli orologi da tasca). I mercati relativamente isolati delle cittadine e dei paesi dell'Europa continentale, un tempo riserva di caccia degli artigiani locali, divennero ora meta di instancabili venditori ambulanti che portavano con sé le meraviglie del mondo esterno. I conservatori vedevano di malocchio simili intrusi, non solo perché competitori e perché stranieri (molti venditori ambulanti erano ebrei), ma per la minaccia all'ordine e alla virtù ch'essi costituivano. Scrivendo a proposito dell'area di Osnabrück, nella Vestfalia settentrionale, il moralista tedesco tardo settecentesco Justus Möser denunciò la faccia tosta di questi mercanti itineranti. Bussavano alla porta di casa mentre il marito era assente (purtroppo per l'autorità patriarcale), tentando le mogli con fazzoletti, pettini e specchi, i simboli della vanità e dello spreco. Una favola di Biancaneve in cui la strega è un astuto ambulante (come in effetti diventa nella favola), e la principessa una donna adulta, ma suscettibile come una bambina.
(David S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni, Garzanti, Milano, 2000, pp. 215-216, 229-239 passim)