Zola intese il romanzo come un’indagine, una rigorosa descrizione sperimentale che procedeva come una diagnosi medica verso l’identificazione di vere e proprie situazioni patologiche, anche se i protagonisti dei suoi romanzi sono fondamentalmente vittime di un sistema sociale impietoso e incapace di alleviare in alcun modo le miserie delle loro esistenze disperate.
La descrizione degli elementi deterministici delle vicende umane vuole essere imparziale e distaccata come quella dell’osservatore scientifico e servire di denuncia delle miserie umane e sociali. Il romanzo viene così ad essere “a tesi”, cioè a costituire un problema a soluzione obbligata. Il valore politico del romanzo doveva essere, come effettivamente fu, tale da spingere la società ad affrontare i problemi che venivano denunciati.
Riportiamo qui le pagine iniziali e la scena conclusiva del romanzo Germinale, nel quale viene descritta la tragica vita dei minatori del nord della Francia.
E. ZOLA, Germinale
(inizio)
- Mi chiamo Stefano Lantier, meccanico... Non ci sarebbe lavoro per me, qui?
Ora, in luce, mostrava ventun anno; bell'uomo, bruno, piuttosto smilzo ma d'aspetto robusto.
Rassicurato, il carrettiere scosse il capo: - Da meccanico, no... Ancora ieri se ne sono presentati due inutilmente. No, no.
Lasciata passare una raffica che mozzava le parole in bocca, Stefano, indicando la macchia scura del fabbricato lì sotto:
- È una miniera, non è vero?
Questa volta, a impedire all'altro di rispondere, fu un impeto di tosse che lo strangolò. Quando poté sputare, lo sputo lasciò sul terreno imporporato dal braciere una chiazza nerastra.
- Sì, una miniera: il Voreux. Ed ecco, là, le case operaie... - e tendeva il braccio a indicare nella notte la borgata di cui l'altro aveva intravisto i tetti.
S'era finito di scaricare; da sé, senza che il carrettiere avesse neanche da schioccare la frusta, il grosso cavallo fulvo ripartì, camminando tra le rotaie e trainando pesantemente la berlina vuota, il pelo arruffato sotto una nuova raffica; mentre il vecchio gli si metteva dietro, armeggiando a fatica le gambe irrigidite dai reumatismi.
Ormai, agli occhi del giovane, il Voreux aveva perso il suo aspetto fantastico. Indugiandosi a scaldarsi le mani scorticate dal freddo, ora Stefano riconosceva la tettoia incatramata del capannone della cernita, il castello del pozzo, lo stanzone del macchinario per l'estrazione, la torretta quadra della pompa di eduzione. La miniera, pigiata a quel modo in una piega del terreno, coi suoi tozzi fabbricati in mattone, col camino che ne sporgeva come un corno minaccioso; gli aveva l'aria malvagia d'un animale ingordo, appiattato lì per divorare gli uomini. Contemplandola, pensava a sé; all'esistenza di vagabondo che da otto giorni menava in cerca di lavoro; si rivedeva nelle Officine delle Ferrovie dove lavorava, il giorno che aveva schiaffeggiato il suo capo. Scacciato da Lilla, scacciato dappertutto, il sabato prima era arrivato a Marchiennes, attrattovi dalla speranza di trovar lavoro in quelle ferriere; ma nulla: né alle ferriere, né da Sonneville. La domenica l'aveva passata nascosto tra le cataste di legname d'una fabbrica di carri, donde poc'anzi - quella stessa notte alle due - un sorvegliante l'aveva scoperto e scacciato. Non aveva più un soldo né un cantuccio di pane: a che seguitare a battere le strade, senza una meta, senza neppure un luogo dove ripararsi dalla tramontana?
Sì, ora la vedeva bene; era proprio una miniera. Le rade lanterne rischiaravano il locale delle macchine: l'improvviso schiudersi d'una porta gli aveva permesso di intravedere, in un lampo accecante, i fuochi delle caldaie. Ora si spiegava tutto; anche lo scappamento della pompa, quel lungo affannoso soffio incessante che si sarebbe detto la respirazione strozzata del mostro.
L'addetto allo scarico dei vagoncini, occupato a schermirsi dal freddo, non aveva neanche alzato gli occhi su Stefano; e questi già si chinava a raccattare da terra l'involto cadutogli e si disponeva ad andarsene, quando una tosse stizzosa gli annunciò il carrettiere di ritorno. A poco a poco si vide il vecchio emergere dall'ombra, seguito dal cavallo fulvo che trainava altre sei berline colme.
- Ci sono delle fabbriche a Montsou?
Il vecchio sputò nero, poi rispose con una voce che il vento lasciava appena udire: - Oh mica son le fabbriche che mancano! Bisognava essere qui tre o quattr'anni or sono! Tutte le fabbriche lavoravano; non si trovavano uomini; non s'era mai guadagnato tanto... Ed ecco che ora si ricomincia a stringere la cintola... Uno strazio da queste parti! si licenziano le maestranze, le fabbriche chiudono una dopo l'altra... La colpa non sarà forse sua; ma perché mai l'Imperatore va a battersi in America? Senza contare che le bestie muoiono di colera, tale e quale come i cristiani...
(epilogo)
... Alto nel cielo, ora il sole di germinale raggiava in tutta la sua gloria. Al caldo dei suoi raggi, la terra sprigionava in mille forme la vita dal suo grembo materno. Le sementi gonfiavano, bucavano di germogli la zolla, variavano i solchi del tenero verde. Le gemme degli alberi si schiudevano in lucide foglie; i campi trasalivano sotto la spinta dell'erba, agognanti alla luce. Per la vegetazione in succhio, si propagava come un fremito: era la linfa che urgeva sotto le cortecce, che traboccava dovunque. Ma sotto quel tripudio della natura, sempre più distinto, il giovane continuava a udire l'oscuro travaglio dei minatori. E di questa messe soprattutto la terra era incinta; una messe che spunterebbe un giorno alla luce, grandeggerebbe nei solchi per gli imminenti raccolti. Là in fondo un esercito lentamente cresceva: un nero esercito vendicatore che, schiantando la terra, ben presto esploderebbe alla luce.
(da E. Zola, Germinale, tr. it. C. Sbarbaro, Einaudi, Torino, 1951, pag. 18-20 e 810)