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Il romanzo industriale di Dickens
Il grande romanziere Charles Dickens affronta il tema della rivoluzione industriale descrivendo la mentalità e la vita materiale delle classi sociali coinvolte nel processo di urbanizzazione, spesso attingendo a fonti documentarie e divenendo così a sua volta fonte preziosa per lo storico di professione.
In tutta la sua opera, e in particolare in Hard Times (Tempi difficili - 1854) egli sa ben descrivere la novità e gli “orrori” dell’industrialismo, riuscendo a tratteggiare in modo veristico un contesto che non costituisce soltanto lo sfondo nel quale si agita dinamica interiore dei personaggi, ma che diventa anche oggetto di scelte di vita e di valori.
Tempi difficili può definirsi il romanzo della città industriale, visto lo spazio dato alla descrizione della realtà urbana e alla denuncia dei problemi derivati dalla industrializzazione.
La storia riguarda l'alleanza tra Mr. Gradgrind e Mr. Bounderby, entrambi convinti che la vita di ogni uomo sia regolata soltanto dai fatti. Mr. Gradgrind, direttore della scuola e deputato in Parlamento per il distretto di Coketown, è promotore di una teoria educativa basata sulla razionalità, sul calcolo, sui fatti concreti. I suoi figli maggiori, nei confronti dei quali attua questi principi, saranno le vittime di una disciplina che mette al bando la fantasia e ogni manifestazione di vita interiore. Mr. Bounderby, il capitalista senza scrupoli, proprietario delle industrie tessili e banchiere, e il tipico self made man, che vanta le sue umili origini per meglio esaltare la sua ascesa.
In opposizione a loro i personaggi minori: Cecilia, Sissy, la figlia di un clown cresciuta nell'affetto del padre e di tutto il personale del circo, che ha imparato a leggere sui libri di fate, e Rachael, l'operaia tessile che fa della solidarietà il suo modello di vita.
Nei passi che proponiamo, tratti dai cap. V e X del I libro e dal cap. I del II libro, è rappresentata Coketown nelle sue caratteristiche tipiche.
Coketown era un trionfo di fatti: non era in essa la più lieve sfumatura di fantasia. Coketown era una città di mattoni rossi, o piuttosto di mattoni che sarebbero stati rossi se il fumo e la cenere lo avessero permesso; ma siccome, così come stava, era una città di un rosso e nero poco naturale, somigliava al volto dipinto di un selvaggio. Coketown era una città di macchine e di alte ciminiere dalle quali uscivano senza tregua interminabili serpenti di fumo, che si strascicavano nell'aria senza mai riuscire a svolgersi. Aveva un canale nerissimo e un fiume che portava delle acque di un color torbo, d'una tinta nauseante, e vaste masse di fabbricati forati da un'infinità di finestre di dove proveniva un rumore e un battito che durava tutto il giorno, e dove gli stantuffi delle macchine a vapore s'alzavano e si abbassavano con monotonia come teste di malinconici elefanti. Essa chiudeva parecchie grandi strade, tutte simili le une alle altre e una quantità di viuzze che si somigliavano ancora di più, abitate da persone che pure si somigliavano, che uscivano e rientravano alle medesime ore, che facevano risuonare gli stessi selciati, con lo stesso passo, per andare ad accudire allo stesso lavoro, sicché ogni giorno era l'immagine della vigilia e del domani; ogni anno il duplicato di quello passato o di quello che l'avrebbe seguito. Insomma questi attributi erano inseparabili dall'industria che dava vita a Coketown; ma, in cambio, aggiungevano al benessere dell'esistenza comodità che si spargevano su tutto il mondo e quelle raffinatezze che costituiscono più della metà della gran dama, davanti alla quale si osa appena ricordare il nome della città surricordata. […]
Nel quartiere più laborioso di Coketown, dietro le fortificazioni più interne dell'odiosa cittadella dove la natura era stata inesorabilmente scacciata dai mattoni, che tenevano prigioniera un'atmosfera piena di miasmi e di gas; al centro di quel labirinto di corti strette l'una accanto all'altra e di viuzze ammassate l'una contro l'altra, dopo essere venute al mondo pezzo a pezzo, stimolate com'erano a rispondere ai bisogni di un qualunque individuo, componente con altri a comporre una famiglia snaturata che si spinge, si schiaccia e si urta a morte; nel fondo e nelle parti più malsane di quel vasto recipiente insalubre, ove i camini spenti per mancanza d'aria, avevano dovuto prendere una quantità di forme imbozzacchiate e adunche, come se ogni casa volesse annunciare, a mezzo di queste insegne, che razza di gente ci si poteva aspettare di veder nascere nell'interno; fra la folla di Coketown, che si chiama in genere le "mani d'opera".
[…]
Un giorno di San Giovanni pieno di sole. Talvolta avveniva qualcosa di simile anche a Coketown. Vista ad una certa distanza, con un tempo così, Coketown giaceva avvolta da un alone di nebbia che pareva impenetrabile ai raggi solari. S'indovinava solo che la città era lì, perché si sapeva che la presenza d'una città poteva solo spiegare l'imbronciata macchia che guastava il paesaggio. Un vapore di fuliggine e di fumo che si muoveva confusamente, tanto in una direzione che in un'altra, sembrava volersi innalzare fino alla volta celeste, oppure si trascinava tenebroso a fior di terra, secondo che il vento cadeva, s'alzava o cambiava direzione: un denso caos senza forma, attraversato da qualche striscia luminosa che non mostrava altro che masse di tenebre; Coketown, a distanza, si annunciava già per quello che era, prima che si potesse scorgerne un sol mattone. [...] Laggiù, nel fiume nero e denso per le sostanze che lo colorivano, qualche ragazzo di Coketown, in libertà, spettacolo raro in quei paraggi, vogava su una barca sconquassata, la cui scia spumosa ne seguiva la rotta faticosa, mentre ad ogni colpo di remo si sollevavano odori nauseanti. L'aspetto non aveva nulla che potesse violentare la salutare monotonia della città. Era un'altra casa di mattoni rossi, con imposte nere all'esterno e persiane verdi all'interno; una porta d'ingresso nera su due gradini bianchi, provvista di una targa e di un battente di rame. Il fabbricato della banca era un po' più grande della casa di Mr. Bounderby, la quale da parte sua era cinque o sei volte più grande delle altre case della città. In quanto al resto era conforme al modello.
(da C. Dickens, Tempi difficili, trad. di L. Berti, Rizzoli, Milano 1949, pp. 45-46, 114, 193
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