La nascita dell'individualismo agrario in Francia.
Nel 1767 l'Accademia di Besançon mise a concorso il seguente tema: «Se è più utile in Franca Contea dare a ciascuno la libertà di chiudere le sue proprietà per coltivarle a suo piacimento o lasciarle aperte per il pascolo collettivo dopo la raccolta dei primi frutti». L'autore della memoria premiata, Ethis de Novéant, si pronunciava con energia a favore della libertà di chiusura.
Se avesse concluso in termini diversi avrebbe ugualmente riportato la vittoria? Identica campana nei rapporti degli amministratori, una volta che erano stati conquistati alle nuove idee. Il tono è assai sostenuto: «diritti odiosi», «usanze barbariche», «che hanno potuto originarsi soltanto in secoli d’ignoranza», «monumenti della condizione rozza e selvaggia in cui l'umanità fu a lungo costretta»: gli esempi di tali piacevolezze si potrebbero moltiplicare senza fatica. È una letteratura pesantemente monotona: poche osservazioni accurate, scaturite da una conoscenza precisa della vita agricola, riescono solo a stento ad animare schemi generali privi di originalità, attinti, in maniera più o meno fedele, dai corifei della Ecole. Istruttiva uniformità! Essa è l’indizio di un movimento di opinione veramente profondo. Teniamo di circoscrivere i motivi fondamentali che sembravano giustificare un così severo verdetto.
Si dividevano in due gruppi: gli uni di ordine economico, gli altri giuridici. È ciò che esprimeva in termini motto chiari il controllore generale Laverdy, quando, in una lettera al procuratore generale del parlamento di Parigi, accusava il pascolo promiscuo di opporsi «ad ogni disegno di miglioria» e insieme di essere «contrario alla libertà naturale». Tutta la dottrina economica del XVIII secolo - che ha lasciato in eredità simile atteggiamento all'economia «classica» del periodo successivo - stata dominata dall'affanno della produzione; e per la maggior parte degli economisti francesi del XVIII secolo produzione voleva dire innanzitutto agricoltura. Questa idea direttrice si fondava senza dubbio su scelte teoriche; ma rispondeva anche a precauzioni concrete, più o meno chiaramente avvertite: timore della carestia, spettro sempre incombente agli occhi delle autorità, ma temibile in maniera del turto particolare in un’epoca in cui la popolazione andava aumentando senza tregua e la guerra dei Sette Anni aveva, ad un certo punto, minacciato di esaurire le fonti dell'approvvigionamento estero; presso gli amministratori, l’ambizione di accrescere, consolidando il benessere dei coltivatori, la forza del regno e, soprattutto, il gettito delle imposte, che quasi interamente ricadevano su di essi. Ora, si pensava, il pascolo «vano» intralciava ogni serio progresso nello sfruttamento della terra. La sua ragion d’essere era quella di consentire l’alimentazione del bestiame. Se ci fosse riuscito, gli agronomi della
nuova scuola non avrebbero potuto fare altro che coprirlo di elogi; perché essi miravano, in primo luogo, alla creazione di un cospicuo patrimonio zootecnico, non tanto per il valore intrinseco riconosciutogli, ma piuttosto perché l’agricoltura di ritmo accelerato che essi sognavano esigeva generose concimazioni. Non era stato proprio il grande Quesnay in persona che, fra le sue Maximes générales du gouvernement économique d’un royaume agricole, aveva questa, la quattordicesima: «Che si favorisca la moltiplicazione del bestiame; perché è lui che fornisce alle terre i concimi che producono le messi abbondanti»? Ma proprio questo scopo prioritario il pascolo collettivo era accusato, non senza ragione, di assolvere assai male. In cambio della rara erba dei campi sgombri di messi o degli incolti, non sarebbe stato meglio offrire agli animali il buon fieno di prati coltivati con cura, oppure alcuni di quei foraggi artificiali - erba medica, lupinella, trifoglio, navone - che l'esempio inglese o fiammingo avevano cominciato a far conoscere? Invece mandarli a vagare senza posa sui maggesi, nutrirli con fieno o foraggi nella stalla stessa, dove era facile raccogliere il concime naturale? Ma era proprio il pascolo «vano» che impediva ovunque il taglio del secondo fieno; e per i prati artificiali, come comportarsi? Fra le piante foraggere, le une - era il caso della maggior parte delle leguminose - esigevano, per raggiungere d loro pieno rendimento, che le si lasciasse parecchi anni di seguito su un medesimo terreno. Le altre - le piante da tubero, soprattutto - erano annuali, é vero; ma in una rotazione razionale, così come la proponevano i trattati tecnici, dovevano venire per forza di cose dopo due anni di cereali, cioè nel medesimo anno che anticamente era riservato al maggese (il loro vantaggio principale era quello di ricostituire la fertilità del suolo, senza costringerlo al riposo); d'altronde assegnare loro il posto del grano, invece di metterle dopo di esso, avrebbe sminuito in misura eccessiva - eventualità da respingere - la superficie degli arativi. Il pascolo collettivo, dunque, perpetuava ciò che François de Neufchâteau doveva chiamare poco più tardi «l'obbrobrio dei maggesi» e abbandonando i coltivi, dalla mietitura fino alla semina, ai morsi delle greggi, si opponeva risolutamente ad ogni coltura pluriannuale. Erano questi i suoi due più grandi crimini. Ma non erano i soli. Le bestie, si diceva ancora, si logoravano inutilmente nel percorrere immense «campagne». La loro concentrazione in mandrie, conseguenza inevitabile del pascolo collettivo, favoriva le epizoozie. Pascolando sui campi e sui prati, ne sconvolgevano il suolo. La loro presenza impediva che si moltiplicassero, là dove fosse stato auspicabile, le lavorazioni agricole. Infine, perché l’apertura del pascolo comune risultasse libera da intoppi, bisognava che su tutto il territorio del villaggio si mietesse e si falciasse alle medesime date, fissate da una consuetudine deplorevolmente immutabile, o decise da una comunità, o da un signore, spesso poco avveduti; da qui l'obbligo, troppo frequente, di tagliare prima della piena maturazione. Di carattere intensivo e desiderosa di adattarsi alle necessità del luogo e del momento, l'«agricoltura nuova» lottava contro quella del passato, estensiva e priva di elasticità.
Ma ciò che dava al conflitto tutta la sua asprezza era il facto che esso non si limitava a contrapporre due tecniche differenti; due nozioni del diritto vi si fronteggiavano. Gli economisti credevano al carattere
«sacro» della proprietà individuale; non perdonavano al pascolo collettivo di porvi un limite e, per un determinato spazio di tempo, abolirla. La proprietà ne veniva «disonorata». Ai loro occhi i recinti, che esso non poteva tollerare, acquistavano il valore di un simbolo. «Un appezzamento chiuso da muri, palizzate o siepi - scriveva Durival (p. 11) - costituisce la sola vera proprietà». È negli spiriti più risolutamente innovatori che questo sentimento acquistava maggior vigore. Due catene soffocavano, secondo la loro opinione, la libera proprietà: i diritti signorili e i diritti collettivi. Essi riversano contro gli uni e gli altri un odio di pari intensità e non esitavano, contro l'insegnamento della storia, a rendere responsabili dei secondi, cosi come dei primi, il «governo feudale». Il famoso libello di Boncerf (Les inconvénients des droits féodaux) è tutto un’arringa in favore della piena proprietà, che il Medioevo aveva ignorato; fra le storture di cui vuole che ci si sbarazzi egli si fa scrupolo di non dimenticare la «consuetudine folle e barbarica» del pascolo collettivo.
Il percorso, che rappresentava soltanto un aspetto del pascolo sulle terre vane, era -ben inteso- bersaglio del medesimo discredito; anzi era ancora più duramente attaccato perché, legando le comunità le une alle altre, impediva che esse si sottraessero - nel caso che, eventualmente lo desiderassero -, alle antiche servitù, ciascuna per proprio conto. Si pensava talvolta che ci si sarebbe potuti accontentare di restringere il pascolo collettivo; ma si sapeva che anche per raggiungere questo traguardo, abbastanza modesto, era necessario per prima cosa sopprimere totalmente i rapporti di promiscuità.
Il pascolo collettivo ebbe anche i suoi difensori. Essi provenivano, più che dagli ambienti intellettuali, dalle fila degli uomini immersi nella vita concreta, soprattutto dai magistrati e dagli amministratori. Li ritroveremo più avanti. Ma si deve indicare fin d'ora quale fosse il loro argomento decisivo: l'interesse dei poveri. Non sempre era perfettamente sincero. Poteva capitare, in realtà, che il pascolo comune tornasse vantaggioso soprattutto ai signori e ai ricchi. Ma è innegabile, ad ogni buon conto - come meglio si vedrà in seguito -, che quasi dovunque i meno fortunati fra i contadini ne traessero una parte della loro sussistenza. I nemici del pascolo collettivo non ignoravano questo risvolto del problema; sapevano bene, come disse nel 1766 l'arcivescovo di Tolosa agli Stati di Linguadoca, che lo si poteva considerare «frutto di un accordo necessario tra gli abitanti d'una medesima comunità, racchiudente in se stesso una uguaglianza sempre lodevole». Ma all' uguaglianza nella mediocrità essi preferivano coscientemente il progresso mediante il libero gioco delle forze individuali. La questione delle «chiusure», che noi intendiamo descrivere, oltre ad essere un episodio della rivoluzione agricola, fu uno degli atti di un grande scontro di idee.
È poco dopo il 1760 che la condanna del pascolo comune e degli usi di promiscuità espressa dai teorici cominciò a smuovere i governanti; é nel 1767 che li induce per la prima volta a prendere energiche misure. Ma molto prima di queste date, al di fuori di qualsiasi iniziativa del potere centrale, i diritti collettivi avevano subito, in diverse regioni, attacchi pesanti.
[…] può essere utile chiarire, nella misura in cui la dispersione delle fonti lo consente, l'assalto che nella prima metà del secolo diverse autorità locali o provinciali hanno dato al vecchio edificio agrario. In questo primo atto della vicenda, cosi come nella storia dell’opera governativa, di cui costituisce il preludio, le rivalità di ordine puramente amministrativo sembrano svolgere un ruolo decisivo; ma dietro queste lotte di poteri si nasconde, il più delle volte, lo scontro di forze sociali tra loro nemiche.
(Marc Bloch,
La fine della comunità e la nascita dell’individualismo agrario nella Francia del XVIII secolo, tr. it. Danilo Zardin, Jaca Book, Milano, 1979, pp. 18-23)