Per una lettura in chiave patologica
C’è la lettura in chiave patologica di chi pensa che la crisi della scuola in Europa sia assimilabile ad una crisi depressiva che ha fatto “scoppiare” i docenti, assimilandoli alla categoria dei matti o degli appestati, dimenticando che il disagio (di cui il “laboratorio didattico” si è ampiamente occupato pochi mesi fa) va trattato in chiave didattica e scientifico-pedagogica;

Professori: matti o appestati?
Allora occorrerebbe curarli tempestivamente questi poveri docenti
(di B.Muscherà)

“È scoppiato il professore”!

Così titolano i giornali in questi ultimi tempi.

Il bambino insolente che si nasconde dentro di me non può fare a meno di figurarsi la scena: “proprio nel bel mezzo della lezione al professore scoppia la testa e correndo tra i banchi sparge brandelli di cervello ovunque tra l’orrore degli studenti”. Chi mi può biasimare se la fantasia di questo piccolo diavoletto impertinente e paffuto, che ha fatto un’indigestione di cattiva televisione, rimane dentro di me e sbotta ogni tanto impossessandosi dell’adulto? Sono solo un figlio dei tempi! Cresciuto, come si sa, con una mano sul telecomando e l’altra nella nutella. Ma lasciamo adesso le fantasie irriverenti di un bambino, la realtà è ben altra: autorevoli dottori dalle loro cattedre di radica, fra una sauna, una corsa in ciclette e una serie di lampade solari (l’abbronzatura è importante, accresce l’autostima!), hanno decretato che si tratta di una cosa seria. I prof. sono scoppiati, letteralmente schizzati, una «categoria a rischio», un manipolo di gente stressata, frustrata «e con tanta ansia addosso da dover ricorrere sempre più spesso all’uso di psicofarmaci » («L’espresso», del 02 ottobre 2003, p.76.).

Si chiama Burnout syndrome, all’inglese. Burn-out che letteralmente significa “bruciato”, “scoppiato” è una patologia seria; il termine è stato coniato per definire quegli atleti che dopo aver raggiunto il massimo risultato in una disciplina sportiva, pur essendo in perfetta forma fisica, non riescono più ad eguagliarlo. Si tratta, secondo l’espressione di Christina Maslach, di una specie di «erosione dell’anima»; esprime un «deterioramento che colpisce i valori, la dignità, lo spirito e la volontà delle persone»; per la studiosa, essa risucchia le persone in «una spirale discendente dalla quale è difficile riprendersi». Secondo un autorevole studio sulla correlazione tra patologia psichiatrica e fenomeno del burnout negli insegnanti, condotto dal dottor Lodolo D’oria, massimo esperto italiano in materia, più della metà dell’intera classe docente accusa i sintomi del Burn-out e il passo da questa sindrome alla malattia psichiatrica è breve. I dati lo confermano: il 54 per cento dei maestri e dei professori accusano stati d’ansia, attacchi di panico, malattie psicosomatiche, il 16 per cento del campione preso in esame fa, o ha fatto uso di farmaci ansiolitici, ipnotici o antidepressivi. Il campanello d’allarme è suonato un anno fa quando ci si è accorti che gli insegnanti che chiedono l’inidoneità alla professione sono il doppio degli impiegati, due volte e mezzo del personale sanitario il triplo di operai e manovali. Ormai siamo alla frutta! La malattia serpeggia nella scuola: dalle materne ai licei cresce il malessere dei docenti costretti ad impasticcarsi per resistere allo stress. Le cause scatenati il disagio mentale dei docenti sono evidenti: innanzitutto l’insegnante, secondo una nota personale del dottor Lodolo D’oria, ha perso quella “veste di sacralità” istituzionale che gli veniva attribuita; questo, insieme ad una retribuzione inadeguata e agli eterni problemi irrisolti della scuola con l’aggravante delle bizze degli studenti e dei genitori, delle pretese dei presidi e l’invidia dei colleghi, pesano ogni giorno sulle spalle dei docenti; anche la difficoltà di inserimento degli alunni disabili e di alunni extracomunitari, come anche l’innalzamento dell’obbligo scolastico e la pretesa degli studenti di essere sempre più partecipi delle decisioni più importanti che si prendono nell’ambito scolastico hanno un peso rilevante.
Sono queste le cause principali che stanno riducendo in pappa il cervello degli insegnanti. In una situazione in cui le responsabilità dei docenti crescono mentre le gratificazioni e le risorse non aumentano si ha l’aggravante che tutti, fino a questo momento, fanno finta di ignorare il problema. Per Renato Pocaterra, ricercatore dello Iard, il «problema è sottovalutato e misconosciuto»: le istituzioni, i dirigenti scolastici, i medici di base non sanno nemmeno di cosa si stia parlando, afferma. Poi ci racconta una barzelletta: qualche attività in più si registra da parte dei sindacati Cgil Scuola e Gilda, per il resto i docenti sono completamente soli ( ivi, p.77). Freud ha scritto parecchio sul motto di spirito, non ricordo però se abbia contemplato il caso in cui esso abbia suscitato il riso degli uditori lasciando impassibile chi lo ha pronunciato. Si, lo so che spiegare le barzellette è una delle cose più odiose che esistano al mondo, insieme al chewing-gum sotto le scarpe e alle penne che non scrivono (scusate se divago dando segni evidenti di squilibrio! ho dalla mia il fatto che sono un insegnante), ma qualcuno dovrebbe rivelare al dottor Pocaterra quanto umorismo si nasconde nelle sue affermazioni.
Tornando al problema, non c’è tempo da perdere la malattia che minaccia, da qui ad una decina d’anni, di far sparire dalla faccia della terra l’intero corpo docente va presa in tempo ed estirpata. Occorre curarli tempestivamente questi poveri docenti: si potrebbe iniziare con terapie di gruppo a scuola, coordinate da un medico psichiatra (si veda lo studio Getsemani nella forma in cui è stato divulgato dalla Gilda). L’auditorium potrebbe essere attrezzato con divanetti di pelle nera sui quali, durante le sedute, i docenti potrebbero adagiarsi e raccontare il proprio disagio, rilassati e senza inibizioni. Poi per migliorare il giudizio dell’opinione pubblica e ridare dignità sociale (Ivi.) a questa categoria caduta in disgrazia, si potrebbe inventare uno spot pubblicitario da mandare in TV, nei cinema tra un film e l’altro e nei grandi schermi del metro. Forse però si potrebbe risolvere il problema alla radice: nel reclutamento degli insegnanti occorre scartare tutti coloro che presentano forti tratti narcisistici o che siano fortemente idealistici. Sono questi, infatti, i soggetti a rischio insieme a quelli che mostrano una propensione ad amare il lavoro di docente (Ivi.).
Due parole sul metodo scientifico della ricerca condotta dallo «Studio Getsemani» curato dall’equipe del dottor Lodolo D’oria, divulgato prima dalla Gilda e poi dalle maggiori testate giornalistiche italiane. Esso si basa:
a) sul fatto che, rispetto ad altre categorie la maggior parte degli insegnanti, che chiedono il prepensionamento, lo fanno non per disturbi fisici ma mentali (magari se i prof svolgessero le proprie lezioni su una impalcatura a tre metri d’altezza, le percentuali cambierebbero);
b) su un campione volontario di insegnanti che hanno risposto a dei questionari diffusi dal «Sole 24ore» e da un sito internet (che ha lo stesso valore scientifico dei Basta di Bonolis a Domenica in).
Per quanto riguarda l’eco di questa notizia, rimbalzata su tutti i quotidiani e i periodici nazionali con tanto di grafici e di percentuali (abbiamo esaminato Panorama, Repubblica, Avvenire, Il giornale, il giornale di Lecco, e quasi tutti sullo stesso tono), il rischio è quello di dare ragione al saggio poeta-ubriacone del mio paese che tutti i giorni, dopo aver letto, con attenzione, sorseggiando sambuca, una catasta di giornali presente nell’unico bar del paese siciliano, commentava laconico: “mminchiatee!!!”
Per non trovarci nella situazione paradossale del pazzo che dentro la cella pensa di essere l’unico libero e considera pazzi tutti quelli che si trovano al di là delle sbarre, occorre aggiungere qualche parola in favore di questi dottori e giornalisti, spezzare una lancia per questi filantropi che tanto si preoccupano della malattia che rischia di far estinguere la razza degli insegnanti. Bisogna ammettere che hanno ragione: una malattia c’è, solo che è difficile riconoscerla perché ormai si credeva sconfitta da tempo; l’unico errore, scusabile del resto, e che dai sintomi essi non hanno saputo trarre una corretta diagnosi. Chi può biasimarli?! Ci vorrebbe un genio come Camus per capire; lui, come il suo personaggio Rieux «sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore e né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle valige, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice». Uno di questi appestati, grande educatore, anche se non esercitava la professione di docente, ci ha offerto nei suoi Pensieri una descrizione dettagliata della malattia: «il non poter essere soddisfatto - scriveva Giacomo Leopardi – da alcuna cosa terrena, né per dir così dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, è trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande di siffatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga nella natura umana». Scusate se, sulla scia di Leopardi, faccio di questo bubbone che mi corrode quasi un blasone di nobiltà, ma in fondo è tutto ciò che mi resta, è tutto ciò che resta ad una classe insegnante, che vive in esilio, confinata in un’isola nella quale ogni tanto sbarca stupito qualche studente, contagiato, per disgrazia o per fortuna, da questa malattia mortale. In fondo non possiamo far altro che vivere la pena dell’insularità come un privilegio e avvertirvi di pensarci due volte prima di venirci in vacanza: nella nostra isola serpeggia il bacillo della peste. Noi non possiamo fare altro, da qui, che lanciare un ultimo appello, quasi “una diceria da untore”, che Gesualdo Bufalino in Cere perse sottolinea, a coloro che abitano le «grandi pianure dove si può camminare sempre davanti a sé»: «Non misurate il nostro respiro col vostro. E soprattutto uomini di terraferma, abbiate pietà di noi che viviamo nelle isole: potremmo da un momento all’altro sparire».