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Le fasi del lavoro

Introduzione

Ideazione

Progettazione

Realizzazione e Produzione

 

Introduzione

Edouard, che aveva fatto legge e studiato pittura, arrivato nel cortile della propria fabbrica, vide due operai che stavano facendo bollire in un bacile una cima di sorbo, pianta nota per la densità e la durezza del suo legno. Stupito, si avvicinò e chiese che cosa stessero facendo. Gli risposero: “l’importante è che non lo dica al padrone, lui non vuole che andiamo in giardino. Ma, sa, i denti di ingranaggio costano così cari in città che bisogna arrangiarsi”. Mio nonno mi raccontava sempre che fu lì, vedendo all’opera quella forza umana, quella volontà di progredire, quel senso dell’economia, che comprese il cuore dell’industria (…).
Tutto continuò con l’arrivo di un ciclista inglese: aveva forato, la sua bicicletta era stata caricata su un carro trainato da buoi. Era venuto da noi perché sapeva che si lavorava la gomma. Il pneumatico della sua bicicletta era stato messo a punto da un certo signor Dunlop, di professione veterinario, che ne aveva abbastanza di percorre in lungo e in largo strade di campagna su una bici le cui ruote non erano altro che semplici cerchioni di ferro ricoperti da una fascia di gomma. Un giorno questo signor Dunlop ebbe la buona idea di mettere dell’aria tra le ruote e il terreno, allo scopo di migliorare la propria comodità. E’ lui il vero inventore del pneumatico.
Il nonno fece la riparazione in due ore. Inforcò la bici e fece il giro del cortile; la gomma scoppiò di nuovo. “E’un’invenzione notevole” - si disse il nonno – “ma a condizione che il pneumatico sia riparabile in meno di dieci minuti”. Sei mesi dopo il pneumatico smontabile era stato inventato.
François Michelin

 

C’è una forza umana misteriosa, umile e grande, che spinge degli uomini, quando sono ancora uomini, ad “arrangiarsi”, a trovare soluzioni per problemi che costantemente si ripropongono loro.

C’è una forza umana misteriosa che fa progredire le persone, le spinge a rapportarsi con i loro bisogni e con la realtà dei fatti fino a indovinare la risposta che rende migliore la loro vita e quella degli altri.

C’è una forza umana misteriosa che permette di individuare il migliore uso delle risorse che si hanno a disposizione, che crea risparmio, ricchezza e valore aggiunto.
Questo insieme di volontà, di fatica, di intelligenza si chiama lavoro. E’, secondo il fondatore della Michelin, il cuore dell’industria.


La stessa forza che muove i due operai muove Mr. Dunlop, il veterinario stanco di affrontare per lavoro sconnessi viottoli di campagna subendone tutte le asperità, e che ha l’idea fondamentale: mettere tra sé e la strada il migliore ammortizzatore che la natura offre: l’aria. Con la stessa forza avrà passato le sere progettando, e poi costruendo e montando sulle ruote della sua bicicletta il primo pneumatico.

Con la stessa forza Edouard Michelin osserva l’invenzione, ne coglie limiti e difetti, individua i miglioramenti essenziali, passa sei mesi a provare e riprovare fino ad arrivare a un nuovo prodotto, comodo, economico, utilizzabile in condizioni avverse.

Ideazione, progettazione, realizzazione, produzione: questi sono i passaggi fondamentali che si ritrovano in ogni avventura umana caratterizzata dal lavoro, sia che si tratti di inventare macchine, di progettare edifici, di pensare e realizzare servizi, di conservare alimenti…….
Sono i passaggi che ritroverete descritti, con sottolineature diverse e in svariati contesti, nelle esemplificazioni che vi proponiamo. Sono i passaggi che dovrete fare voi, realizzando il vostro capolavoro: le storie che troverete sono solo uno spunto, una illustrazione di cosa vuol dire lavorare.

 

Ideazione

“Un'idea, un concetto, un'idea,
finché resta un' idea, è soltanto un'astrazione,
se potessi mangiare un'idea
avrei fatto la mia rivoluzione” (Giorgio Gaber)

Per ideare qualcosa si parte da un bisogno reale, altrimenti un’idea rimane astratta, inutile. Per ideare occorre quindi osservare, osservare il proprio bisogno, osservare gli elementi che lo costituiscono, osservare le risorse che contribuiscono a soddisfarlo.
Il punto di partenza è dunque la realtà, non la soluzione di un problema astratto: i padri della macchina a vapore sono Newcomen, Watt, Fulton e Stephenson, che avevano il problema di far funzionare telai, locomotive e piroscafi, e non Erone, che aveva inventato un meccanismo per far aprire le porte del Tempio di Alessandria, provocando stupore tra i suoi concittadini
Si racconta anche che Papin, lo scienziato francese che costruì per primo lo strumento che univa il focolare e la caldaia (la cosiddetta pentola di Papin, per l’appunto) facesse vedere a tutti la sua invenzione, che produceva un identico movimento fintanto che era sotto pressione. Si dice che un amico, dotato di molto spirito pratico, gli chiedesse “ma a che serve?” L’inventore rispose con un’altra domanda: “A che serve un neonato?”.
Nell’ideazione c’è anche il presentimento di aver trovato qualcosa che va oltre, che trascende lo scopo immediato per cui è stato costruito. C’è come l’intuizione di una verità che risponderà a domande che ancora non immaginiamo.

Ideare significa quindi partire per rispondere a un bisogno, identificandone i fattori costitutivi e gli elementi fondamentali per soddisfarlo. Il bisogno diventa quindi un problema, una sfida che può essere affrontata anche attraverso tecniche che facilitano l’approccio e la soluzione.
Una tecnica molto usata è il brainstorming: consiste nell’affrontare il problema attraverso la libera associazione di idee. Perché funzioni, soprattutto se si lavora in gruppo, occorre qualcuno di autorevole che sappia valorizzare tutti gli apporti, anche quelli apparentemente eccentrici, per fare in modo che il problema sia visto sotto una luce effettivamente nuova, che mostri aspetti imprevisti e punti di approccio diversi.
Un’altra tecnica, simile a questa, consiste nell’uso dell’analogia: sulla base di un problema già risolto, o di una esperienza, di una tradizione o di una innovazione, si prova a vedere quanto il nostro problema trovi uno sbocco, un’ipotesi di soluzione. E’ qui che spesso, per rimanere all’esempio di Papin, i neonati diventano grandi: è per analogia che si applica la caldaia a vapore al telaio. Anche qui serve che ognuno porti la sua esperienza e la sua conoscenza e che ci sia qualcuno in grado di leggerla, di valorizzarla, di giudicarla.
Spesso, soprattutto se il problema che nasce dal nostro bisogno è complesso, cioè è fatto di tanti elementi, può essere utile cercare di scomporlo in “sotto problemi”, a cui rispondere uno alla volta. Spesso ci si accorge che la soluzione di uno di questi funziona anche per una serie di altri sotto problemi:

Queste tecniche aiutano, nel senso che semplificano il compito, preparano il terreno, permettono di evidenziare meglio gli elementi in gioco, di tenere conto di tutti i fattori della realtà implicati, in modo da rispondere in modo efficace a un problema dell’uomo. Anche la preparazione tecnica, culturale e scientifica ha questa valenza, in quanto mette a disposizione conoscenze, tecniche, esperienze di chi prima di noi ha messo in moto quella “forza umana” di cui parlava Michelin.
Non bastano però solo le tecniche: l’ideazione è una fase in cui il confronto con altri, colleghi e esperti, è essenziale.
L’ideazione rimane però in ultima analisi un imprevisto, uno sguardo da una prospettiva nuova che fa cogliere in un attimo la direzione della soluzione. In qualche misura è un “dono”
Come tutti i talenti ricevuti, occorre “trafficarla”, lavorarci su, faticare, provare e riprovare, fino ad arrivare a un progetto, a un prototipo, a un prodotto.

 

Progettazione

Dall’idea, dal riconoscimento e dalla analisi del bisogno all’obiettivo, cioè a quella “cosa” che soddisfa in modo nuovo e più completo il bisogno, c’è un tragitto, una strada, un viaggio.
Questa strada si chiama progetto.
Come tutti i viaggi, come tutte le avventure, il progetto si misura con la realtà.
Il primo modo con cui la realtà mi si presenta è la necessità di rispondere a questa domanda: “Che cosa devo raggiungere per fare in modo che la mia idea, quella scintilla di novità che si è accesa nella mia (o nella nostra immaginazione) possa essere toccata, vista, utilizzata, concreta?”
In altre parole: “Quali sono i miei obiettivi concreti?”.
La parola obiettivo è centrale per capire cosa vuol dire progettare. Innanzi tutto un obiettivo è qualcosa di misurabile, qualcosa del quale posso dire con certezza: “l’ho raggiunto” o con altrettanta certezza: “non l’ho raggiunto”.
“Studiare il problema che voglio risolvere” non è un obiettivo, perché un problema può essere studiato a tantissimi livelli di complessità, sotto tantissimi punti di vista, fino a livelli di precisione e di dettaglio indeterminati.
“Risolvere in modo corretto il problema” oppure “realizzare l’oggetto X” è un obiettivo, perché fin tanto che non ho risolto il problema o realizzato l’oggetto, so con certezza che devo ancora lavorare. D’altra parte, una volta raggiunto lo specifico contenuto dell’obiettivo, so con certezza che posso andare avanti. Tertium non datur.
Se il viaggio tra l’idea e la sua realizzazione è lungo, converrà dividerlo in tappe; se il progetto è complesso, sarà bene individuare diversi obiettivi intermedi.
L’obiettivo diventa allora una specie di unità di misura del progetto, che mi consente di valutarne la difficoltà e il valore, e mi permette di verificarne il grado di realizzazione, mi aiuta nell’individuare ciò di cui ho bisogno per raggiungerlo.

La realtà infatti si presenta anche sottoforma di risorse: che cosa ho sotto mano per realizzare (cioè fare diventare reale) l’idea? Cristoforo Colombo voleva raggiungere l’Oriente attraversando l’oceano. Se la marineria del tempo non avesse avuto a disposizione le caravelle, navi a forma di guscio di noce, usate dai navigatori portoghesi per resistere alla forza dell’Atlantico, ma soltanto le navi in uso nel Mediterraneo, lunghe e strette, la sua idea sarebbe rimasta tale.
Ma spesso le risorse sono nascoste, spesso ci sono delle idee che non hanno ancora prodotto nulla e che invece potrebbero essere la soluzione del problema.
I monaci del Medioevo utilizzarono un gran numero di invenzioni degli antichi per il lavoro agricolo e di costruzione, invenzioni che greci e romani non avevano mai valorizzato perché il lavoro era fatto, gratis, dagli schiavi. I monaci, e gli uomini del Medioevo in generale, non erano schiavi, e dovevano economizzare le proprie risorse.
E’ questo il momento in cui, progettando, cioè organizzando il viaggio tra l’idea e la realtà, si risponde alla domanda di Papin: “A cosa serve un neonato?”. La risposta a questa domanda è inaspettata, è un lampo di novità, è anch’essa una specie di “dono”. E normalmente è anche uno dei più importanti valori aggiunti che la progettazione porta al lavoro.

La realtà infine si presenta come vincoli. Nel realizzare l’idea non tutto è permesso. Ad esempio se ottengo dei soldi dalla Regione o dal Comune per raggiungere un particolare obiettivo del mio progetto, probabilmente non potrò usarli come voglio. Oppure, non posso non tenere conto dei limiti di lavoro delle persone che lavorano con me.
Molto facilmente dovrò destinare alcune risorse unicamente alla realizzazione di determinati obiettivi, oppure lavorare con alcune persone solo a determinate condizioni e o con specifici limiti.
Quanti soldi ho? Quanto tempo mi serve? Che scadenze ci sono? Chi mi può aiutare? Cosa potrei utilizzare per realizzare questo obiettivo? Tempi, risorse, soldi e capacità umane non sono infiniti: progettare significa lavorare duramente per organizzare nel modo più intelligente, più economico le risorse, finalizzando gli obiettivi intermedi alla realizzazione dell’idea.
Esistono anche delle tecniche per la progettazione e per la gestione del progetto: queste tecniche vanno sotto il nome di Project Management. Il Project Management è in sostanza una tecnica di strutturazione degli obiettivi intermedi e finali (chiamati normalmente milestones, pietre miliari) in relazione al tempo, agli altri obiettivi, alle risorse disponibili per ognuno e alla loro combinazione (i cosiddetti tasks – compiti), nonché di analisi delle singole risorse da impiegare (lavoro, soldi, prodotti). Spesso queste tecniche di gestione del progetto è supportata da grafici (ad es. diagrammi di Gantt) e da strumenti informatici ad hoc (ad es. MS Project).
Ma, come abbiamo detto anche a proposito dell’ideazione, le tecniche aiutano, supportano, danno un quadro preciso e chiaro, ma non sostituiscono in nessun modo il lavoro, l’esperienza, la capacità di cambiare e la autorità di un esperto che guida e fa crescere un gruppo.

 

Realizzazione e Produzione

Avere degli obiettivi e aver definito quali sono le risorse necessarie per realizzarle significa avere individuato i compiti concreti che abbiamo di fronte per far diventare reale la nostra idea, per rendere effettivamente possibile la soddisfazione di un bisogno. E’ svolgendo il compito concreto che emergono tantissime competenze degli uomini che lavorano. Lo stesso compito può essere fatto bene o fatto male, e la differenza tra un lavoro realizzato a regola d’arte e uno fatto tanto per fare è spesso la differenza tra un capolavoro e una fatica inutile.

Un tempo gli operai non erano servi: lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli imprenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io - io ormai così imbastardito – a farla tanto lunga. Per loro, in loro, non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava lì, si lavorava bene.
Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Charles Peguy

Naturalmente che fa, chi realizza il prototipo o chi mette in piedi il sistema di produzione su larga scala di un prodotto, non è solo l’anello operativa di un progetto che sta a monte.
Chi produce dà valore a ciò che viene prodotto innanzi tutto nel senso indicato dal poeta francese Charles Peguy: ogni cosa vale se è fatta bene, con la cura necessaria, con la giusta attenzione al particolare. Chi ha visto la versione di Biancaneve di Walt Disney, realizzata negli anni ’40, si stupisce della cura al particolare, alle ombre, alle espressioni anche minime dei personaggi. Ciò che ne esce è un prodotto affascinante. Lo stesso fascino lo si ritrova in prodotti più moderni, in cui la tecnica e la computer graphics la fanno da padrone, ma non è stata dimenticata l’attenzione anche al dettaglio.
Ad esempio, leggete questa interessante intervista a Alex Ongaro uno degli animatori della DreamWorks, una delle principali case di produzione di cartoon movies, a proposito di che cosa vuol dire disegnare il cielo in un film come Bee Movie

Alex, come hai incominciato il tuo lavoro di animatore?
Dopo gli studi, che ho fatto in Svizzera, ho lavorato in Italia in studi di architettura e software, per specializzarmi nel 3-D. Ho mandato il mio curriculum ad alcune società americane; una mi ha contattato e allora mi sono trasferito negli States. Dall’architettura sono passato al cinema, dato che negli Stati Uniti c’è grande richiesta di animatori per il numero sempre crescente di effetti speciali usati nei film. Il mio primo lavoro nel cinema è stato l’animazione delle ali di Tilda Swinton che impersona l’Arcangelo Gabriele in Constantine, con Keanu Reeves. È un effetto decisamente impressionante (le ali sono enormi rispetto alla figura), di cui sono ancora molto orgoglioso. Nell’animazione ho incominciato come semplice “Effects Animator” (che è un che fa una cosa molto piccola o molto semplice), e ora sono un “Lead Effects Developer”, che vuol dire che da esecutore sono diventato uno sviluppatore, partecipo anche a un livello più creativo del film. Per fare un esempio, in Madagascar mi limitavo ad animare le folle. Sinceramente, era un lavoro estremamente noioso, un processo eminentemente tecnico e assai poco artistico. A quel tempo lavoravo a S. Francisco per PDI, una consociata, non ancora direttamente per Dreamworks, ma avevo chiaro che non volevo lavorare più sulle folle, ero disposto piuttosto a cambiare società. Infatti per La gang del bosco ho iniziato a fare cose abbastanza semplici, ma aspettavo un’occasione migliore. Si è presentata quando Dreamworks, dopo Shark Tale ha deciso di cambiare il proprio software e passare a quelli che usavamo in PDI, che erano molto più sofisticati. Siccome in DreamWorks non c’era nessuno che conoscesse quei software, mi hanno mandato da San Francisco, dove stavo, a Los Angeles per due mesi a insegnare l’utilizzo di questi programmi. Per due mesi così ho lavorato in Dreamworks a Giù per il tubo. Alla fine erano talmente soddisfatti che mi hanno chiesto di rimanere a DreamWorks.

E qual è il tuo contributo a Bee Movie?
A Bee Movie ho iniziato a lavorare circa un anno fa, quando è cominciata la produzione. Era già un anno che si impostava il lavoro, e io sono arrivato proprio all’inizio della produzione: ho iniziato a occuparmi di coordinare il lavoro di altri animatori e ho affrontato un grosso problema: nel film ci sono tre sequenze nelle quali si vola in aereo tra le nuvole e per la prima volta DreamWorks non usava uno sfondo (come ancora fa la Pixar nei suoi film, per esempio), ma provava l’animazione delle nuvole in 3-D. Non so se sono stato più bravo o fortunato, ma devo dire che mi sembra siano venute particolarmente bene.

Qual è stato il tuo approccio?
Per circa tre mesi non ho fatto altro che guardare il cielo e disegnare nuvole, nuvole, nuvole. Un’esperienza un po’ straniante, ma penso che stare su un prato sdraiati a guardare nuvole è una delle cose più commoventi che possano capitare. Io ero pagato per farlo, ma forse ora capisco un po’ il punto di vista dei pittori del passato quando ritraevano la natura o dei filosofi che pensavano ai massimi sistemi. Guardare le nuvole dovrebbe essere parte integrante della giornata di chiunque. A voi non vi pagheranno, ma almeno lo spettacolo è gratis.

Scendendo sulla terra, che altre novità sono state introdotte in Bee Movie?
Un'altra novità interessante, ma che mi ha complicato molto la vita, è il numero di personaggi presenti nello stesso momento nella stessa scena. Nelle scene di alveare in Bee Movie ci sono migliaia di api che fanno cose differenti e questo è bellissimo, ma ha messo a dura prova tutti gli animatori, come pure i computer. Un altro problema è stato far recitare nelle stesse scene personaggi dalle dimensioni così diverse come gli umani e le api. Ci ha obbligato a lavorare contemporaneamente su scale diversissime tra loro, e questo ancora ha messo tutti a dura prova. Poi devo confessare che nonostante viva in America da un po’ di anni non ho ancora particolare dimestichezza col sistema di misurazione che si usa qui, con i piedi, i pollici e anche con i gradi Fahrenheit. In più, in Dreamworks l’unità di misura è ormai lo Shrekle, dato dalla misura dell’altezza di Shrek, circa 7 piedi (o 2 metri). Potete immaginare quando mi dicono che un personaggio è alto 0,92 Shrekle. Vado in crisi.

Da “UN ITALIANO ALLA CORTE DI RE SHREK. INTERVISTA AD ALEX ONGARO”
di Beppe Musicco

Chi produce, quindi, aggiunge valore anche perché è in grado di modificare il progetto, di definire meglio l’idea, di porsi come esperto che permette che ideazione e progettazione non siano astratti o campati per aria.
Questa possibilità nasce dalla tecnica, la tecnica propria di ogni singolo lavoro, e dalla capacità di riflettere sul senso della propria esperienza. Nasce ad esempio quando un Effects Animator, dopo anni di gavetta passati ad animare i personaggi sullo sfondo, e di riflessione e conoscenza approfondita degli strumenti tecnici usati, diventa Lead Effects Developer, e pur continuando a realizzare prodotti, comincia a portare la propria esperienza e la propria capacità anche laddove si sviluppano aspetti creativi e progettuali.
E’ una capacità che l’esperienza del lavoro ha sempre chiamato maestria. Possederla significa essere un “maestro.
Qui le tecniche sono le più diverse, quelle proprie di ogni mestiere, di ogni professione, di ogni compito. Si imparano a scuola, si imparano con l’esperienza, si imparano seguendo a nostra volta un maestro. Ma anche qui le tecniche supportano, ma non possono sostituire quel quid imprevedibile, quel qualcosa di unico che ognuno di noi, qualunque lavoro faccia, aggiunge al prodotto, all’opera.
Questo è particolarmente vero per i lavori “artistici”, ma lo è altrettanto per chi fatica in officina, per chi gestisce documenti e lavoro d’ufficio, per chi cura le persone, per chi tira diritti i muri. C’è sempre qualcuno da cui impariamo un lavoro fatto bene; c’è sempre qualcuno che guardandoci, può imparare qualcosa di nuovo.