Pasticcio milanese di via Quaranta.
Per difendere le tradizioni egiziane e per far crescere da separati
i bimbi musulmani in Italia, sorge a Milano in via Quaranta una scuola
islamica. Il Comune la chiude per inagibilità igienica.
La stampa se ne è occupata a dismisura e non merita di essere ripercorsa
nella sua maniacalità di far finta di parlare di scuola, per tacere ciò che
è specifico della scuola: insegnare ed educare.
Però una voce singolare merita di essere ricordata, quella di Francesco
Merlo ["La Repubblica" del 9 settembre 2005, pag. 20]: "Qui bisogna chiudere
per aprire. Le scuole non si chiudono, si aprono alla modernità".
"Andrebbe chiusa perché in nessun posto d'Italia esiste una scuola parteno-siculo-borbonica né brianzol-austriacante e neppure
papalin-tiberina".
Quindi, cosa c'entra una scuola islamica?
Bisogna ringraziare Merlo per aver implicitamente fatto un complimento
all'unitarietà della scuola italiana. Però, solo entrando in una scuola di
Napoli, di Roma o di Milano, si avverte un clima
che difficilmente può dirsi
lo stesso. Il problema non è far finta che tutte le scuole italiane siano
uguali e quindi chi si discosta va eliminato, ma capire quali fondamenti e
quali differenze possono e debbono essere esaltati, perché arricchenti la
società tutta.
Per Merlo, sembra di capire, quello che non va bene è che nella scuola ci
sia la religione.
Naturalmente adesso è in questione l'islam, domani potrebbe essere un'altra
religione. Il tutto in nome della laicità, e senza la preoccupazione di far
diventare la laicità una nuova religione, anch'essa rivelata dai profeti,
questa volta profeti del
laicismo:
"I princìpi laici imporrebbero che tutte le religioni a scuola fossero
antropologia e storia".
Ma a quale antropologia dovremmo far ricorso per spiegare che nella scuola
va vietata persino la nozione di religione?