Horvath alla ribalta:
 
          
da "Gioventù senza Dio"
           a "Storie del bosco viennese".

Da Salisburgo in teatro, con regia di Barbara Frey, ritorna un autore che dovrebbe essere accolto da noi e fare il giro di tutte le scuole superiori in Lombardia, se non in Italia:
Von Horvath.

Autore di teatro, ma anche di un romanzo che guarda ai giovani e alla loro formazione nella scuola in Germania alle origini del nazismo.
Stupefacente la rassomiglianza di tanti tratti con
i nostri giovani e soprattutto l'esiguità di coloro che accettano di vivere liberamente accostandosi al "libro" come fonte di meditazione e di vivere in solidarietà di intenti con il loro professore, maestro di scuola, ma anche maestro di vita. Il romanzo è "Gioventù senza Dio".

Ma, in questo caso, è il teatro di Horvath ad essere in scena.
Lo presentiamo in una recensione critica di Franco Cordelli (Corriere della Sera,sabato 3 settembre 2005)

"Accostando spettacoli di registi di lingua tedesca visti negli ultimi anni, da Emilia Galotti di Thalheimera Stella e Pentesilea di Kimmig, da Woyzeck e Casa di bambola di Marthaler a Ascesa e caduta di Re Ottokar di Musej, Storie del Bosco viennese di Ödön von Horvath proposto dalla Svizzera del 1963 Barbara Frey si riscontra sempre lo stesso procedimento. Si prende un classico, più o meno moderno;gli si conferisce
un imponente impianto scenografico composto
da uno spazio vuoto delimitato da pareti semoventi e ricche di astuti pertugi con, in
qualità di arredamento, pochi, simbolici oggetti;
si attribuiscono agli attori costumi altamente stilizzati che strizzano comunque l'occhio a un generico '900, e si imprime loro, agli attori, uno stile di recitazione che oscilla dal distaccato al sarcastico. La dizione è chiara e netta, tecnicamente ineccepibile. Sempre, vi si riscontra un'energia che nel teatro italiano manca. Ma un approdo a musicalità più sfumate, con l'eccezione dell'Emilia Galotti, non ne ho riscontrate. E' uno stile, o meglio una maniera. Essa caratterizza il teatro tedesco di questi anni e temo si tratti di
un fondamentale scetticismo nei confronti del passato o di un malinteso senso di superiorità di noialtri, solo perché siamo nati dopo. Il modo
della Frey di trattare i personaggi di Horvath
ne è un esempio preclaro.
Nello spettacolo vi sono scene umoristiche, che scivolano fino al dileggio. Quella da Horvath ritratta, è vero, è una comunità piccolo borghese alle soglie dell'hitlerismo (siamo nel 1931). Ma Horvath è molto più profondo di come non appaia a Salisburgo. E se l'impianto drammaturgico, di tipo corale, può essere ricondotto alle commedie di Cechov, o a un dramma come l bassifondi di Gorki, il punto di partenza di Horvath che, lo ricordo, nacque a Fiume nel 1901 e, morì in uno dei modi più assurdi che si possano riscontrare, colpito da un albero abbattuto da un fulmine, mentre aspettava a
Parigi, nel 1931, Robert Siodmak, il futuro regista de La scala a chiocciola, il suo punto di partenza, dicevo, è da lui dichiarato in epigrafe:
«Nulla quanto la stupidità dà il senso dell'infinito».
Se questo non è Flaubert, cos'è? Horvath, dunque, non giudica. Contiene, semmai, la sua pietà, la dissimula,'la formalizza. Il che non gli vieta d'avere uno sguardo lucido fino alla profezia. Il suo è il tipico stile austro-tedesco degli anni Venti, che si può riscontrare in Karl Valentine in Brecht,
sferzante ma mai compiaciuto.
Dice il protagonista del Bosco, Alfred, che da scommettitore alle corse dei cavalli e da piccolo sfruttatore delle amanti intende intraprendere una carriera:
«Chi vuole farsi largo oggigiorno deve lavorare col lavoro degli altri. Mi sono messo in proprio. Investimenti finanziari ecc.».
O, su un altro versante, della lotta tra i sessi, dice un personaggio minore:
«Le donne non hanno anima, sono solo carne e pelle! E allora vanno trattate senza tanti riguardi»..
In proposito, molto tempo dopo Elfriede Jelinek nello stile anni '70, appunto più analitico e sarcastico, più o meno lo stile della Frey, scriverà:
«Tutto sommato queste storielle affermano che
le donne, per quanto siano stupide, restano pur sempre care»!.
Che, per rimanere a Vienna, o a Salisburgo, è un modo più esplicito di vedere le cose. Ma dieci anni prima, raccontando della sua mite Miranda, che si rifiuta di correggere la propria miopia, scriveva
la lirica e struggente Ingeborg Bachmann in
Occhi felici:
«Nel Wienerwald (il Bosco viennese) Miranda non vede gli alberi, ma il bosco, respira profondamente e cerca di orientarsi».
Non sempre, insomma, gli austriaci sono stati fustigati dai loro scrittori come oggi lo sono dai loro premi Nobel o dai loro registi.

STORIE DEL BOSCO VIENNESE di von Horvath/Frey
Festival di Salisburgo 2005