
C’è chi spera che le diagnosi scientifiche, pur corrette, di per sé siano
idonee a generare le più opportune terapie.
Su
un approccio scientifico allo stress
Tratto da Psicologia e Scuola
Ed . Giunti (n. 112 e 113)
L'insegnante in trappola
Stress e burnout nel mondo della scuola.
Gioacchino Lavanco, Cinzia Novara, Gaetana Iacono - Cattedra di Psicolo¬gia
- Università di Palermo
Lavorare nella scuola al tempo dell'autonomia, ma anche delle incer¬tezze
normative ed organizzative, dei nuovi bisogni formativi e delle nuove
competenze, dei conflitti sociali e delle scelte orientative, non ha
ricadute esclusivamente sulla qualità del servizio, sugli utenti o sull'or¬ganizzazione.
Da non sottovalutare è lo stress a cui sono sottoposti docenti ed operatori
della scuola. Il contributo che presentiamo si propone di offrire alcune
riflessioni ed una indagine proprio sui rischi professionali degli
insegnanti.
In questa prima parte affronteremo il quadro teorico complessivo, offren¬do
spunti per riflettere sui nuovi problemi del lavoro nella realtà pubblica:
lo stress e il burnout in primo piano; nella seconda parte ci occuperemo
specificamente del burnout degli insegnanti; infine, nella terza parte,
presente¬remo una ricerca realizzata fra insegnanti che operano nella realtà
siciliana.
Il lavoro educativo al tempo dello stress
Troppo spesso l'opinione pubblica vede la professione dell'insegnante come
una delle professioni "comode", a tratti semplice, frequentemente di scarso
impegno e di poca fatica; al contrario, l'insegnante vive oggi una
condizione assai difficile. L'intrecciarsi di diversi fattori individuali,
orga¬nizzativi e culturali, può condurre l'insegnante in una condizione di
soffe¬renza psicologica e lavorativa.
Tale condizione si esplicita principalmente in un minor coinvolgimento nel
proprio lavoro: minore sensibilità nei confronti degli allievi, difficoltà a
rapportarsi agli altri (alunni, colleghi, dirigenti scolastici), percezione
di inefficacia e bassa autostima. In altri termini, in quella che viene -
ormai comunemente - definita sindrome del burnout, con evidenti
ripercussioni non soltanto sulla dimensione relaziona¬le del docente e sugli
allievi, ma anche sulla comunità nel suo insieme.
Quando si parla di stress, si deve risalire storicamente alle pionieristiche
idee dell'endocrinologo Hans Selye, che di questo concetto si può
conside¬rare il padre.
Nei suoi lavori sullo stress, Selye (1956) si è ricollegato al concetto di
omeostasi introdotto dal fisiologo Cannon, il quale con tale termine
intendeva indicare il fatto che l'organismo animale o umano tende a
mantenersi in uno stato di equilibrio dinamico. Ciò vuol dire che l'organi¬smo
ha dei limiti stabiliti in modo preciso circa il livello di tensione che può
sopportare (pensiamo al tasso di zucchero presente nel sangue o alla
temperatura), per cui un livello di tensione troppo elevato o troppo basso
protratto nel tempo alla fine non potrebbe essere tollerato. Così quando
l'equilibrio omeostatico è minacciato da fattori interni o esterni, si
innescano delle risposte atte a ristabilire l'equilibrio perso.
Selye (op. cit.) conseguentemente ha individuato il concetto di Sindrome
Generale di Adattamento o Stress per indicare le reazioni fisiologiche
aspecifiche che si riscontrano nell'organismo in seguito ad una richiesta di
modificazione esercitata su di esso attraverso l'azione di una vasta gamma
di stimoli eterogenei (chimici, fisici, ecc.).
Le reazioni aspecifiche, che sono simili qualunque sia il tipo di agente
stressante, si accompagnano alle reazioni specifiche (come, per esempio, la
formazione di anticorpi nel caso di infezioni) e tale insieme di risposte
permettono all'organismo di affron¬tare un'esigenza o adattarsi a una nuova
condizione.
La Sindrome Generale di Adattamento sarebbe così caratterizzata da tre
stadi:
1) reazione d'allarme: è lo stadio in cui l'organismo avverte lo shock
iniziale causato dall'agente stressante (stressor) e in conseguenza di ciò
scatena i propri meccanismi di difesa e intensifica le proprie reazioni
fisiologiche; tali meccanismi permettono di arginare i cambiamenti
verifi¬catisi cercando di mantenere l'equilibrio omeostatico dell'organismo;
2) resistenza o adattamento: rappresenta la fase in cui l'organismo tenta di
stabilire un nuovo adattamento alla situazione e si verifica un progressivo
riequilibrio delle funzioni; tale stadio ha una durata variabile in
relazione al protrarsi della condizione di stress e alla capacità
individuale di difesa;
3) esaurimento: se l'organismo è costretto a prolungare uno stato di
risposta elevato, in quanto è forte l'azione dell'agente nocivo o falliscono
i meccanismi di difesa, si entra in questa terza fase; essa è caratterizzata
da uno squilibrio dell'organismo che, non avendo più nuove risorse da
impiegare, "soccombe", nel senso che apre la strada all'insorgenza di
patologie psico¬somatiche di vario tipo.
Non sono poche le vere e proprie malattie psicosomatiche conseguenza dello
stress; Favretto e Rappagliosi (1988a) annoverano tra di esse:
- malattie dell'apparato digerente (gastroduodenite, ulcera peptica, ecc.);
- malattie cardiovascolari (ipertensione, infarto, ecc.);
- malattie endocrine e metaboliche (diabete mellito, iper e ipotiroidismo,
ecc.);
- malattie connesse a disordini del sistema immunitario (allergie,
infe¬zioni, malattie reumatiche, ecc.);
- altre malattie (renali, ginecologiche, cutanee, oculari e displastiche).
Selye ha anche introdotto un'importante distinzione fra i concetti di stress
positivo (eustress) e stress negativo (distress): entrambi comportano la
Sindrome Generale di Adattamento, ma hanno diverse conseguenze. Men¬tre,
infatti, l'eustress produce effetti desiderabili come un miglioramento delle
capacità di risposta attiva, il distress (che può originarsi quando la
sollecitazione è eccessiva oppure minima e provoca monotonia e inibizione
delle normali esigenze di attivazione dell'organismo) determina risposte
inappropriate, depressione, e così via.
Le conclusioni a cui era giunto Selye sono state in parte corrette in quanto
se, da un lato, è vero che si considera la risposta dell'organismo allo
stress come risposta generica e aspecifica, dall'altro è anche vero che si
cerca di collegare determinate alterazioni fisiologiche con le
caratteristiche dello stimolo e con quelle individuali della persona.
Quindi, sono diverse le variabili che devono essere prese in considerazione
affrontando lo stress: fattori psicologici, comportamentali e di
personalità, interazioni della persona con l'ambiente, ecc.
Innanzitutto, occorre riconoscere l'importanza dei fattori psicologici nella
modulazione dello stress.
In tale direzione alcuni autori hanno sotto¬lineato come a produrre lo
stress non è tanto lo stimolo in sé quanto piuttosto la reazione cognitiva
e/o emotiva del soggetto, al punto che si può tradurre uno stimolo che
potenzialmente non è nocivo in uno che, facendo riferimen¬to alle esperienze
e alla personalità di ciascuno, diventa uno stressor.
Proprio in conseguenza dell'interazione della persona con l'ambiente in cui
vive, divengono importanti per l'insorgenza dello stress i fattori
psico¬sociali. A tal proposito sono rilevanti gli studi di Holmes e Rahe
(1967) che hanno intervistato persone con disturbi organici e funzionali
prestando attenzione a quegli eventi della vita dei soggetti che si sono
verificati circa un anno prima del manifestarsi della malattia.
Sulla base dei risultati ottenuti i due autori hanno costruito una "Scala di
valutazione del riadattamento sociale" (fig. 1), in cui a ogni situazione
viene assegnato un punteggio diverso secondo la quantità di impegno
richiesta per adattarvisi.
Per quanto riguarda l'argomento specifico dello stress lavorativo, uno dei
modelli più completi che ci può aiutare a comprenderlo è quello proposto
inizialmente da Cooper e Marshall (in Cooper, 1978) e poi approfondito da
Sutherland e Cooper (in Cooper, 1988).
In tale modello, sintetizzato da Rossati e Magro (1999), sono individuabili
cinque fonti di stress lavorativo:
1. Fonti intrinseche alla mansione da espletare, ossia i fattori fisici e
ambientali che possono incidere negativamente sul rendimento e sull'effi¬cienza
dei lavoratori (rumorosità, illuminazione scarsa o abbagliante, varia¬zione
di temperatura, ecc.), ma anche i fattori derivanti dal carico di lavoro,
dai frequenti viaggi, dagli orari prolungati, ecc.
2. Fonti relative al ruolo nell'organizzazione, che fanno riferimento:
- all’ambiguità di ruolo (mancanza di chiarezza rispetto al compito),
- al conflitto di ruolo (deriva dalla difficoltà a soddisfare richieste tra
loro inconciliabili),
- al sovraccarico di ruolo (surplus di richieste).
3. Fonti relative allo sviluppo di carriera: si pensi alle ambizioni deluse
di coloro che hanno elevate aspirazioni ad emergere, alla competitività che
si crea tra colleghi per ricoprire un incarico migliore o, ancora, alla
sovra¬promozione per un incarico per il quale non ci si riconosce
all'altezza.
4. Fonti relative alle relazioni di lavoro, vale a dire le difficoltà di
relazioni con colleghi, autorità e dipendenti. Sono qui rintracciabili
quattro stressor relazionali caratteristici:
- incongruenza di posizione (il ruolo che si occupa è diverso da quello che
si vorrebbe);
- densità sociale (uno spazio di vita insufficiente);
- presenza di personalità abrasive (soggetti che costituiscono possibi¬li
fonti di stress in quanto sono in¬sensibili verso le emozioni altrui e
distanti nelle relazioni);
- stili di lea¬dership con cui il superiore si rap¬porta al subordinato.
5. Fonti relative alla struttura e al clima organizzativo: proprio per¬ché
il clima organizzativo è costitu¬ito da valori e norme organizzative,
sentimenti e credenze collettive, esso può influenzare in modo sia positivo
che negativo il "senso di appartenenza" al l'organizzazione e quindi, in
ultima analisi, influenze¬rà il comportamento e le prestazioni
dell'individuo.
Secondo Cooper (1978; 1988) conseguenza di queste fonti di stress sono degli
effetti che si riscontrano a livello individuale ed organizzativo (fig. 2).
Van Harrison (in Favretto e Rappagliosi, 1988a) ha ideato un modello dello
stress che si presta ad essere applicato in ambito lavorativo; esso tende a
far leva sulle interazioni costanti che avvengono tra la persona e l'ambien¬te.
Quattro sono i parametri che caratterizzano le interazioni
individuo¬ambiente e che debbono essere presi in considerazione per
individuare il potere stressogeno di un qualsiasi processo di adattamento:
1) le caratteristiche oggettive dell'ambiente (demands), che in una
situa¬zione lavorativa possono essere individuate, per esempio, nei compiti
formali specificati dal contratto lavorativo;
2) le caratteristiche oggettive della persona, ossia le caratteristiche
fisiche, professionali, esperienziali di un individuo in una determinata
situazione;
3) la valutazione soggettiva delle richieste oggettive come, per esempio, il
fatto che all'individuo impegnato nell'organizzazione, le richieste di
efficienza che gli vengono rivolte possano sembrare o meno adeguate;
4) le caratteristiche soggettive della persona: un lavoratore ha una propria
opinione sul proprio valore professionale, sulle proprie capacità di far
fronte alle richieste di produttività.
Secondo tale modello, l'adattamento oggettivo (coping) è in relazione alla
capacità di adattamento delle persone all'ambiente e, quindi, alla capacità
di collegare le richieste oggettive con le caratteristiche personali del
soggetto.
L'adattamento soggettivo, che deriva dalla percezione dell'am¬biente e
dall'immagine di sé che l'individuo ha, si realizza mediante l'attivazione
di meccanismi di difesa come la razionalizzazione, la dissocia¬zione, il
distogliere l'attenzione e così via.
Il riscontro o meno tra l'ambiente obiettivo e la percezione che il soggetto
ha delle richieste ambientali ci permette di valutare il grado di contatto
con la realtà dell'individuo; la congruenza o meno tra le caratteristiche
obiettive dell'individuo e l'imma¬gine che ha di sé costituisce un indice
dell'accuratezza dell'autopercezione
(fig. 3).
Dallo stress al burnout
Tutte le possibili disarmonie tra ambiente obiettivo, caratteristiche
perso¬nali, percezione ambientale, immagine di sé, possono portare allo
sfociare di stati di tensione, disagio, ansia e patologie da stress.
La sindrome del burnout rappresenta una modalità d'adattamento del tutto
particolare che si manifesta in risposta a situazioni lavorative fortemente
e lungamente stressanti.
Nel modello elaborato da Pines (1983), il burnout è considerato come uno
stato di esaurimento emotivo alla cui origine c'è una storia di disillusione
delle proprie aspettative e dei propri ideali. Secondo questo autore,
infatti, il burnout interesserebbe tutte quelle professioni in cui
l'aspettativa di realizzare, tramite il lavoro, ideali universali e/o
personali costituisce un aspetto fondamentale. La sindrome del burnout
colpisce, specificamente, coloro i quali svolgono professioni che implicano
un rapporto interpersonale significativo con l'utenza ed in particolare,
come hanno fatto notare Maslach e Jackson (1981), quelle che sono inserite
in organizzazioni o contesti di tipo istituzionale. Tra queste c'è anche la
professione degli insegnanti, categoria in cui l'incidenza del burnout è
andata sempre più aumentando in questi decenni (Farber, 1983).
L'identificazione del burnout come specifica modalità di reazione allo
stress è attribuita a Herbert Freudenberger che nel 1974, con il lavoro
Staff burn-out, introdusse questa sindrome nel mondo scientifico degli Stati
Uniti.
Anche se esistono precedenti richiami a questo fenomeno, sia nella storia
letteraria che in quella scientifica , il merito di Freudenberger risiede
nell'aver descritto dettagliatamente i sintomi del burnout, dando vita ad
una nuova categoria clinica.
Freudenberger s'imbatté nel burnout durante il suo lavoro in un centro
psichiatrico, specializzato nella cura di pazienti dediti all'uso di droghe.
L'assistenza di questi pazienti era affidata soprattutto a dei giovani
volon¬tari, animati da forte entusiasmo e da alti ideali. Dopo pochi anni di
questo lavoro, però, Freudenberger incominciò a notare in loro una graduale
perdita d'energia e una minore motivazione verso quest'attività, oltre alla
presenza di alcuni sintomi fisici e psichici. Per denotare questo
particolare stato d'esaurimento, Freudenberger scelse una parola che era
usualmente utiliz¬zata per riferirsi all'uso cronico di droghe, vale a dire
il termine burnout.
La diffusione e la popolarità di questo termine furono improvvise ed
immediate, e coinvolsero non solo gli addetti al lavoro, ma anche il grande
pubblico. Forse si deve attribuire proprio all'eccessiva popolarità e
divulga¬zione della parola la ritardata attenzione della comunità
scientifica italiana verso questo fenomeno.
L'improvviso interesse verso il burnout da parte dei mass media, infatti,
fece nascere la convinzione che si era in presenza di un fenomeno di
passaggio, di una semplice moda del momento .
Diversamente dalle mode, sempre troppo fugaci, l'interesse per il burnout
non andò scemando, ma al contrario andò aumentando sempre più.
Molti operatori impegnati nelle helping profession, infatti, non tardarono
ad identificarsi nei sintomi descritti da Freudenberger, come se stessero da
tempo aspettando un nome e un rimedio per il disturbo che già manifesta¬vano.
Un ulteriore consolidamento all'avanzare degli studi sul burnout lo si deve
a Christina Maslach, ricercatrice di psicologia sociale che, nel 1982,
s'imbatté accidentalmente in questo fenomeno. La Maslach diede un enor¬me
contributo alla conoscenza del burnout, in quanto spinse il mondo
scientifico ad intraprendere la via delle ricerche empiriche, grazie anche
ad un questionario di sua elaborazione: il Maslach Burnout Inventory. (MBI)
Il MBI valutala presenza del burnout attraverso tre scale che misurano:
- 1’esaurimento emotivo;
- la spersonalizzazione;
- la ridotta realizzazione personale dell'individuo.
Questo test è tuttora lo strumento più utilizzato nelle ricerche sul burnout,
nonostante il dibattito abbia spinto sempre più a cercare altri strumenti
(si pensi alle sperimentazioni italiane del Job Burnout Inventory di Ford,
Murphy e Edward, 1983, o del McDermott Burnout Inventory di McDermott, 1984)
tentando una distinzione fra l'approccio psicodinamico e quello psicosociale.
Infatti, se lo psichiatra Freudenberger mirò ad un approccio clinico, volto
a descrivere minuziosamente i sintomi manifestati dai singoli individui, con
la Maslach invece si apre la strada alla sperimentazione e a1
l'individuazione oggettiva delle cause d'insorgenza del burnout.
Christina Maslach criticò in modo deciso l'approccio clinico, che
con¬siderava esclusivamente volto a speculazioni teoriche, incapaci di
condurre ad alcuna conoscenza e comprensione sistematica del fenomeno
burnout.
Per questo motivo, la studiosa si fece promotrice dell'approccio empirico
che, dall'inizio degli anni ' 80, diede l'avvio a numerose ricerche sulle
cause e sui fattori determinanti il burnout.
La differenza tra l'approccio clinico e quello empirico non risiede soltanto
nella speculazione dell'uno e nella sperimentazione dell'altro, ma anche in
una differente base teorica che spiega le cause d'insorgenza del burnout: se
i sostenitori dell'approccio clinico sono soprattutto interessati allo
studio delle dinamiche individuali, i sostenitori dell'approccio empirico
invece spostano l'accento sull'impor¬tanza del contesto sociale e
soprattutto sugli aspetti organizzativi del lavoro.
Per i sostenitori dell'approccio empirico diviene sempre più chiaro che il
burnout è un fenomeno altamente complesso e multideterminato, che per essere
spiegato ha bisogno di un modello che tenga conto di questa complessità.
Il modello che più di tutti sembra rispondere a quest'esigenza di
complessità è quello proposto da Cherniss (1980), che descrive il burnout
come un processo transazionale che si realizza in tre fasi:
1) la prima fase implica uno squilibrio tra risorse disponibili e richieste,
che genera lo stress lavorativo;
2) di fronte a questo stress però l'individuo reagisce fornendo un'immediata
e temporanea risposta emotiva, caratterizzata da tensione, fatica e
irritabilità, che gli permette di controllare la condizione di stress;
questa seconda fase corrisponde all'esaurimento emotivo dell'operatore, che
se non risolto in fretta si trasforma in difesa psicologica, che porta
3) al distacco emotivo e alla rigidità: soltanto in quest'ultima fase del
processo possiamo parlare di burnout.
Cherniss considera il burnout come una difesa che viene innescata
dall'individuo quando si trova di fronte ad una situazione lavorativa
alta¬mente stressante.
Tale risposta difensiva aiuta l'operatore ad affrontare una realtà che non è
riuscito a modificare. Secondo Cherniss, la condizione lavorativa che più di
tutte genera un forte stress nell'operatore socio¬sanitario consiste in un
sistema organizzativo che non aiuta questi professio¬nisti ad affrontare ed
ammortizzare le difficoltà che nascono da un coinvol¬gente contatto con
pazienti multi-problematici.
Anche se il burnout è il risultato di uno stress lavorativo, le conseguenze
di questa sindrome non procurano dei disturbi soltanto nel rapporto con i
pazienti, ma coinvolgono l'individuo totalmente, sia nella sua componente
psicologica, sia in quella fisica.
I disturbi psicologici provocati dal burnout possono essere riassunti in:
rigidità di pensiero, senso di colpa, isolamento e pensieri negativi, tutti
sintomi che, in definitiva, riguardano una profonda alterazione dell'umore.
A queste manifestazioni psicologiche del disturbo, poi, dobbiamo aggiungere
i disturbi somatici, che si concretizzano in una generale vulnerabilità
verso le malattie, in manifestazioni psicosomatiche quali ulcere e basse
depressioni. Sono però presenti anche frequenti mal di schiena, raffreddori,
disturbi alimentari, disturbi del sonno.
Si è inoltre notata, in chi soffre di burnout, la tendenza ad abusare di
sostanze alcoliche e di droghe.
Risulta evidente che le conseguenze del burnout sono molto serie e
preoccupanti, in quanto causano un completo sconvolgimento nella vita di chi
ne è colpito, mettendone in serio pericolo la stabilità psichica e l'inco¬lumità
fisica.
Burnout ed insegnamento
Tra le cause che contribuiscono alla sindrome del burnout negli insegnan¬ti,
sono state elencate la retribuzione inadeguata, l'incapacità di adattarsi ai
rapidi e continui cambiamenti dei metodi della didattica, l'eccessivo
coin¬volgimento emotivo nei problemi degli alunni, la monotonia del lavoro.
Altri autori hanno sottolineato, invece, l'importanza dei rapporti
interperso¬nali con i colleghi e i superiori e, in generale, del clima
organizzativo (Maslach, 1982; Cherniss, 1980; Farber, 1983).
A partire dal modello tridimensionale del burnout elaborato da Maslach e
Jackson (1981), si è accertato che negli insegnanti:
- la dimensione esauri¬mento emotivo è legata al vissuto personale di
sentirsi incapaci di rapportarsi agli studenti/alunni/bambini;
- la dimensione depersonalizzazione si manife¬sta principalmente con un
atteggiamento cinico e con vissuti di insensibilità rispetto ai bisogni e ai
problemi dei propri alunni;
- la dimensione della ridotta realizzazione lavorativa si traduce in una
percezione di inefficacia nell'in¬segnamento e nella stimolazione
dell'interesse degli studenti/alunni/bambini e in una percezione di
incapacità a sostenere le responsabilità del proprio ruolo professionale.
In generale, dunque, l'insegnante vittima del burnout è meno empatico con i
propri allievi, meno sensibile ai loro problemi e bisogni, ha una bassa
tolleranza nei confronti di quello che accade in classe (disordine, atti
aggressivi, ecc.), si sente incapace di trattare la classe adeguatamente e
meno coinvolto nel suo lavoro.
Tutto ciò finisce con l'avere un effetto negativo sull'insegnante, sugli
allievi e, nel complesso, sull'intera comunità (Farber, 1983).
Poiché la percezione soggettiva del proprio ruolo, delle condizioni
lavo¬rative, della qualità dei rapporti con i colleghi e con i superiori
sembrano essere dei fattori particolarmente importanti che incidono sul
burnout, una delle ricerche da noi realizzate - che verrà descritta nella
terza parte di questo contributo - si è posta l'obiettivo di indagare le
relazioni esistenti tra la soddisfazione lavorativa e la sindrome del
burnout in un campione di insegnanti di scuola elementare.
Val la pena ricordare che la nostra riflessione si inserisce in quell'area
di ricerca-intervento che è la psicologia di comunità, il cui obiettivo è di
promuovere il miglioramento della qualità della vita. Tale finalità pone
l'accento sullo sviluppo delle capacità e risorse personali, che converge
nello sviluppo della competenza della comunità nel suo insieme. Favorire lo
sviluppo della competenza della comunità vuol dire incentivare appartenen¬za
e solidarietà tra le persone e i gruppi esistenti nella comunità, ma anche
cercare di rendere partecipi i cittadini nella vita istituzionale per
affrontare il distacco dalle istituzioni e le difficoltà della burocrazia. E
l'interesse per le persone considerate nel contesto dei loro ambienti e
sistemi di vita che caratterizza la psicologia di comunità.
Essa, infatti:
1) mette in rilievo come l'individuo interagisca nei vari contesti in cui
vive e come queste interazioni siano centrali per il suo sviluppo;
2) pone enfasi sui vissuti e sulle percezioni soggettive che si hanno
dell'ambiente sociale e su come queste contribuiscano ad una definizione
dell'ambiente stesso;
3) studia e osserva le transazioni fra i diversi livelli sociali: individui,
gruppi, sistemi, reti di sistemi;
4) dà rilievo al benessere psicologico individuale, che è in funzione
dell'accordo psicosociale (Murrell, 1973), ossia del grado di accordo e
congruenza tra aspettative e capacità dell'individuo e richieste e risorse
della rete sociale.
In tale ottica il disagio psicologico non è ascrivibile semplicemente al
singolo individuo o alle strutture sociali e pertanto il disagio individuale
o sociale e gli aspetti problematici che ne derivano sono considerati come
connessi a situazioni sociali complicate, difficili, critiche. Diviene così
essenziale la strategia della prevenzione non soltanto per anticipare ed
eliminare il disagio, ma proprio per permettere lo sviluppo di migliori
condizioni di vita e favorire l'integrazione dinamica tra individuo e
ambiente.
Come fanno osservare Francescato e Ghirelli (1988), nei sistemi educativi
delle democrazie occidentali ritroviamo le contraddizioni tipiche della
società di cui fanno parte. Infatti, da un lato, tali sistemi dovrebbero
favorire lo sviluppo e l'emancipazione di ogni individuo dando le stesse
possibilità a prescindere dalle differenze di classe sociale; dall'altro, i
sistemi educativi predispongono la scolarizzazione in modo tale che come suo
risultato si abbia il modellamento dell'individuo sulla base del cittadino
medio deside¬rato. Questa tendenza si traduce in una promozione
dell'interiorizzazione dei rapporti di potere esistenti nella società e
quindi nell'accettazione delle discriminazioni sociali. Così, la scuola
insegna ad ogni individuo a stare al proprio posto o a considerare la
riuscita sociale come risultato del merito e degli sforzi individuali; e se
qualcuno non "riesce" a scuola o nella vita in genere, non è per mancanza
della società o del sistema scolastico, ma deve solo rimproverare se stesso
per non aver saputo cogliere le opportunità che gli sono state offerte.
Conseguentemente, una delle richieste più importanti tipiche delle
profes¬sioni di aiuto è la richiesta di competenza e a ciò si deve
aggiungere il fatto che il professionista è spinto da una motivazione ideale
che lo porta ad elaborare un'immagine professionale dotata di una serie di
caratteristiche positive a cui il soggetto vorrebbe assomigliare. Si creano
così delle grosse aspettative nei confronti della propria attività, si
cercano sensazioni di "utilità", di successo psicologico, di aiutare gli
altri con grande investimento di energia.
Nel momento in cui tale sistema di aspettative viene logorato da elementi
frustranti, si va ad alimentare lo stress e l'esaurimento. In altre parole,
quando per l'operatore la profusione di sforzi ed energia nell'aiutare gli
altri non è controbilanciata da risultati positivi riscontrabili nella
propria attività, ecco che insorgono una serie di emozioni negative
accompagnate, talvolta, anche da correlati somatici. Se l'operatore inizia a
sentirsi incapace di svolgere il proprio lavoro, si sviluppa la condizione
di "impotenza appresa" (learned helplessness) ed egli tende a utilizzare
difese inappropriate il cui esito finale può essere il burnout (Rossati e
Magro, 1999).
Il burnout sarebbe dunque, soprattutto nel mondo della scuola, una modalità
errata di adattamento allo stress lavorativo, messa in atto da operatori che
non dispongono delle risorse adeguate per fronteggiarlo (Cafiso, Cannizzo e
Sampognaro, 1996).
E ciò è in sintonia con la definizione di Cherniss (1980) del burnout come
«una strategia di adattamento che ha conseguenze negative sia per la persona
che per l'organizzazione».
Se, come abbiamo già detto, per la Maslach la sindrome del burnout è
caratterizzata da tre dimensioni che si originano da un'eccessiva richiesta
emozionale subita dall'operatore, che arriva a sentirsi sopraffatto da essa,
è proprio per l'esistenza della fase di depersonalizzazione che il burnout
si distingue dallo stress lavorativo, con il quale, invece, ha in comune l'esau¬rimento
emozionale e la scarsa realizzazione personale; inoltre lo stress è
fondamentalmente un fenomeno psicofisiologico individuale, mentre il burnout
è un fenomeno soprattutto psicosociale (Rossati e Magro, 1999).
A conclusioni simili a quelle della Maslach sono giunti Edelwich e Brodsky
(1980), anche se da una prospettiva diversa, vale a dire consideran¬do
l'evoluzione ciclica dei Sé professionale nei professionisti d'aiuto. Il
ciclo, che può essere interrotto ad ogni stadio con un opportuno intervento,
può anche ripresentarsi più volte nella vita lavorativa di un individuo.
L'evoluzione del Sé professionale si realizza attraverso i seguenti quattro
stadi:
1) Stadio dell'entusiasmo: l'operatore è fortemente motivato e al di là
dello zoccolo della sua motivazione (che può essere di tipo religioso,
politico, ecc.) troviamo sempre una base di entusiasmo, anche se non mancano
motivazioni secondarie quali la ricerca di un impiego sicuro, o la scelta di
un lavoro di prestigio. All'entusiasmo vanno aggiunte delle motivazioni meno
consapevoli: pensiamo, per esempio, al desiderio di esercitare un potere
sugli altri o di sentirsi i detentori della salute della popolazione.
Comunque sia, in questa fase si enfatizzano gli aspetti positivi e gradevoli
di una professione, scartando gli aspetti negativi: si ha, dunque, una
percezione non realistica delle effettive difficoltà che l'attività
profes¬sionale comporta. Si ha anche l'errata convinzione che a buone
credenziali corrispondano buone competenze e, a quest'ultime, il successo.
2) Stadio della stagnazione: calato l'entusiasmo, la professione
idealiz¬zata diventa un lavoro, un mestiere come tanti altri; ciò si
verifica nel momento in cui il soggetto giunge alla scoperta che gli esiti
della sua attività sono vaghi, incerti e difficili da cogliere. Si prova
così la sensazione di non aver più niente di nuovo da sperimentare, da fare,
di vivere una situazione di stallo e noia, oltre che la delusione, magari,
per il basso stipendio o per il mancato avanzamento della propria carriera.
3) Stadio della frustrazione: si manifesta quando si sperimenta per lungo
tempo il divario tra le aspettative personali e la disarmante realtà
quotidiana; tale condizione sfocia nel vissuto di inutilità e vuoto o nel
sentimento di rabbia mista a colpa nei confronti dei proprio lavoro; è in
questa fase che emerge il burnout.
4) Stadio dell'apatia: è la diretta conseguenza della situazione di
frustra¬zione ed è intesa come disimpegno emotivo-affettivo. Qui il burnout
è al punto massimo ed è conclamata la sua essenza, vale a dire la
demotivazione: il soggetto che era partito da una grande motivazione e
preoccupato del benessere dell'utente, adesso è preoccupato solo di se
stesso, della propria salute, dei propri interessi.
In tale processo il burnout viene visto come «una progressiva perdita di
idealismo, energia e motivazione, sperimentata dalle persone impegnate nelle
professioni di aiuto come esito delle condizioni del loro lavoro» (Edelwich
e Brodsky, 1980). Secondo Cifiello e Pasquali (1989) il burnout altro non
sarebbe che il perdurare della discrepanza tra motivazioni ideali e
condizioni di lavoro della fase di stagnazione, senza né il ritorno alla
fase idealistica, né qualcos'altro. La loro ipotesi è che se alla
frustrazione delle motivazioni ideali si accompagna un intervento massiccio
delle condizioni oggettive di stress, l'operatore passerà dalla fase di
stagnazione a quella di frustrazione; diversamente, se l'intervento delle
cause oggettive è meno pesante, il soggetto avrà altre possibilità di
soluzione.
In quest'ultimo caso, infatti, ci sono diverse vie d'uscita e l'operatore
potrà:
assumere una difesa attiva, che consiste nel modificare la realtà
lavorativa e nel fare qualcosa a "tutti i costi" senza valutare se possa
essere alla fine utile; la controindicazione maggiore che qui si può
rilevare è quella di spostare il problema a livelli sempre più alti, creando
attese utopistiche e speranze vane;
rifugiarsi in un altro lavoro fuggendo da quello attuale, in quanto si
ritiene che se le aspettative personali sono frustrate è perché la
situazione lavorativa non è quella giusta: non si riesamina l'immagine
ideale che ci si è fatti della propria attività, ma il lavoro stesso. È da
precisare che bisogna distinguere la fuga da un cambiamento ragionato di
lavoro, in quanto quest'ultimo scaturisce dal cercare il proprio status
economico e sociale o dal seguire un curriculum di studi originariamente
intrapreso; la fuga, invece, è tipica di chi dopo anni di lavoro stabile si
ripiega verso lavori precari, sottopagati o inadeguati alle proprie capacità
professionali;
apprendere una nuova tecnica di lavoro e di relazione per rimediare alla
caduta dell'entusiasmo; tale tecnica si traduce in un complesso di
conoscen¬ze oggettive e di risposte soggettive diverse per ognuno e si basa
sull'espe¬rienza e su adeguate "strumentazioni" che permetteranno
all'individuo di pervenire ad un sufficiente grado di equilibrio o di
distanza emotiva. Si tratta di collaborare con altre professionalità e non
considerarsi polivalenti, individuare un campo di interventi su cui
specializzarsi, avere aspettative realistiche, non dedicarsi esclusivamente
ai casi impossibili o ad un caso per sempre e così via.
Fattori scatenanti nell'ambito scolastico
Finora abbiamo trattato dei percorsi del burnout e delle sue
caratteristiche, ma cosa provoca tale fenomeno?
Operando una sintesi tra più modelli e basandosi sulle proprie osservazio¬ni
effettuate sul campo, Cafiso, Cannizzo e Sampognaro (1996) hanno tentato una
classificazione delle cause di burnout secondo uno schema che considera tre
fattori (vedi fig. 4):
1. variabili lavorative relative all'organizzazione del lavoro, all'ambien¬te
fisico e sociale e condizioni che oggettivamente possono provocare alti
livelli di tensione e di logorio psicofisico; in questo gruppo di fattori
sono elementi che favoriscono il burnout, per esempio, la scarsa autonomia
di ruolo, il carente riconoscimento sociale, l'insufficiente circolazione di
informazioni, le interferenze burocratiche e così via;
2. variabili personali relative all'esperienza, al vissuto emotivo e alla
struttura di personalità del singolo operatore;
3. variabili di gruppo relative al modo in cui l'interazione tra i singoli e
l'organizzazione generale del lavoro affronta collettivamente le difficoltà
di rapporto al suo interno.
Se consideriamo le variabili lavorative di tale modello e, più in generale,
focalizziamo la nostra attenzione sull'organizzazione in sé, possiamo
anno¬verare tra le cause di burnout il lavorare nelle organizzazioni a
legame debole.
Come fanno notare Di Maria e Lavanco (1995), si tratta di organiz¬zazioni in
cui è presente un basso livello di legame, tipico delle istituzioni
pubbliche o di quelle in cui l'eccessiva burocratizzazione impedisce un'ag¬gressività
fisiologica e produttiva. Quest'ultima, allora, trova sfogo attraver¬so le
triangolazioni, i rumoreggiamenti, le disconferme del lavoro altrui. Non
solo, tali organizzazioni facilitano la cristallizzazione dei ruoli e dei
comportamenti, oltre ad una confusione tra ruoli e funzioni (pensiamo alla
mamma-maestra).
Da quanto detto è facile comprendere come le organizza¬zioni a legame debole
rappresentino l'humus da cui può originarsi l'indivi¬duo “burnoutizzato”.
Infine, seguendo schematicamente il percorso tracciato da Rossati e Magro
(1999), possiamo individuare quattro prospettive che rintracciano cause
diverse del burnout: il punto di vista della psicologia dell'apprendi¬mento,
quello clinico-psicoanalitico, quello sociologico e quello psicosociale.
Secondo la psicologia dell'apprendimento, il burnout è conseguenza
dell'impotenza appresa. Infatti gli individui nella costruzione delle
proprie aspettative si basano per lo più su una stima soggettiva delle
possibilità di successo, dando poco rilievo alla valutazione della
situazione reale. Quando, poi, non trovano riscontro nella realtà, insorge
l'impotenza appresa che comporta un deficit motivazionale (non si è
stimolati a intraprendere un'azione che permetta di prendere in mano il
controllo della situazione), un deficit cognitivo (l'individuo perde di
vista il fatto che gli avvenimenti, in una certa misura, sono influenzati e
dipendono dalle sue azioni) e un deficit emozionale (l'evento, che per
l'individuo è incontrollabile, suscita reazioni dalle valenze negative:
paura, depressione, rabbia).
C'è poi la prospettiva clinico-psicoanalitica, secondo la quale l'individuo,
quando è schiacciato da richieste eccessive, affronta la situazione di
respon¬sabilità verso l'altro attraverso l'impotenza e la depressione.
Questo è possibile per il processo mentale di "autotomia", ossia la tendenza
della mente ad allontanare da sé esperienze frustranti e dolorose, che in
quanto tali restano al di là della pensabilità.
Invece, secondo il punto di vista sociologico, il burnout sarebbe una
conseguenza del declino della vita di comunità (ipotesi, questa, in accordo
con la filosofia della psicologia di comunità). Mancando il senso di
appar¬tenenza ad una comunità, vengono meno anche i sistemi di sostegno
primario (e con essi il legame implicito che legava le persone), che
svolge¬vano l'importante funzione psicologica di aiuto e sicurezza.
In altre parole, è come se l'individuo di oggi, vittima della disgregazione
del tessuto sociale e senza appoggi informali, in presenza del suo malessere
psicologico non riesca a farvi fronte, non abbia i mezzi per difendersene.
Si determina così un aumento della domanda di intervento ai servizi
sociosanitari e alle istituzioni formali, con tutto quello che comporta (per
esempio, maggiore stress per gli operatori sociali).
In ultimo, la prospettiva psicosociale, per spiegare il burnout, pone
l'enfasi sulle relazioni del lavoratore con i colleghi, i superiori, la
struttura organizzativa di cui fa parte. Essa fa prendere atto che
l'individuo lavora in un'organizzazione che ha una propria struttura, dei
propri meccanismi culturali ed è composta da persone, con una loro
individualità, che rivestono ruoli; il ruolo professionale è dato
dall'insieme di status (la posizione occupata dalla persona nella struttura
organizzativa), mansioni da espletare e atteggiamenti tipici della persona
che esegue dei compiti.
Così, è facile capire come il rivestire e l'esercitare un ruolo
professionale può essere fonte di stress e facilitare l'insorgere del
burnout: pensiamo al sovraccarico di lavoro o di ruolo, al conflitto di
ruolo o ancora al conflitto che può insorgere tra l'individuo e il proprio
ruolo quando il lavoratore deve svolgere una mansione in cui non crede.
Gestire le relazioni
La centralità della relazione docente-allievo, nella professione dell'inse¬gnante,
contraddistingue tale professione come helping profession. Se le professioni
d'aiuto sono ad alto rischio di burnout ne consegue, per la proprietà
transitiva, che anche gli insegnanti possono essere soggetti a dosi elevate
di stress e burnout.
Scrivono Favretto e Rappagliosi (1990): «L'immagine sociale di questa
professione [l'insegnamento] sembra essere abbondantemente scaduta: da un
passato in cui la scuola veniva tenuta in grande considerazione e, di
conseguenza, i docenti godevano di notevole prestigio, ora sembra prevalere
un atteggiamento meno idealistico e più pragmatico e l'istituzione
scolastica tende ad assumere una funzione quasi esclusivamente di custodia,
di addestramento e di istruzione, con una conseguente svalutazione del ruolo
e della figura dell'insegnante stesso».
In tendenza opposta a ciò, la società sembra dilatare le aspettative nei
confronti della scuola.
Nell'aula l'insegnante deve realizzare una funzione d'istruzione,
socia¬lizzazione e valutazione, e una seconda funzione consistente nel
creare un ambiente che favorisca la prima funzione e che riguarda la
stimolazione degli alunni, il mantenimento del controllo, ecc. (Hoyle,
1978).
Nello stesso tempo viene chiesto al docente di ricoprire una molteplicità di
ruoli discordanti che non convergono nelle aspettative iniziali che si è
costruito nei confronti della professione; gli viene chiesto di svolgere
mansioni non soltanto di formazione e istruzione, ma anche funzioni di
guida, di consiglio e attività di ogni tipo di cui molte a carattere sociale
(Favretto e Comucci Tajoli, 1988): ad esempio, l'insegnante come "genitore
alternativo" e "psicologo suo malgrado" (Rossati e Magro, 1999).
Ma come conciliare, tanto per citare una possibilità, la figura di
valutatore del docente con quella di aiuto nei confronti dei propri allievi?
Possono, dunque, sorgere difficoltà e malessere derivanti dall'ambiguità di
ruolo, dal conflitto di ruolo e, ancora, dal sovraccarico di ruoli.
Da ricerche italiane sulle problematiche lavorative dell'insegnante è emerso
che gli insegnanti non svolgono più tale professione "per vocazio¬ne", ma in
seguito a qualche condizionamento (come la presenza in famiglia di un
insegnante), o per un vero e proprio ripiego, soprattutto gli uomini (Favretto
e Comucci Tajoli, 1988).
Entriamo, dunque, nel campo della motivazione alla professione di
insegnante. A partire dai dati di un'indagine Iard di dieci anni fa
(Cavalli, 1992), è possibile individuare ancora oggi quattro gruppi di
insegnanti sulla base della differenza motivazionale che li caratterizza:
1. un primo gruppo considera l'insegnamento come un impegno sociale
(insegnanti attivi di scuole medie inferiori, titolari di discipline
umanistico-¬letterarie e con un'anzianità di servizio medio-lunga);
2. un secondo gruppo vive l'insegnamento come possibilità di esprimere la
propria vocazione e come fonte di realizzazione personale (insegnanti donne,
titolari di discipline scientifiche e insegnanti professionalmente anziani);
3. un terzo gruppo sceglie l'insegnamento in funzione dei vantaggi
strumentali ricavabili: l'autonomia, il tempo libero, la possibilità di
poter conciliare impegni familiari ed extralavorativi (insegnanti maschi,
docenti con minore esperienza lavorativa e che lavorano in istituti
professionali);
4. infine, un quarto gruppo ha una motivazione che coniuga i vantaggi
strumentali derivanti dalla professione con la possibilità di realizzarsi
nel lavoro (questo tipo di insegnante si distribuisce in modo omogeneo all'in¬terno
della categoria poiché non sono riscontrabili differenze in base al sesso,
al tipo di scuola o alla materia insegnata).
Vi sono situazioni specifiche dell'insegnamento che possono condurre a
disagio e malessere nell'ambito scolastico, condizioni che a lungo andare
possono portare a distress e burnout.
Come sottolineato più volte, la professione insegnante si fonda sulla
relazione con l'alunno: proprio per questo una delle cause principali di
burnout è la difficoltà di rapporto con l'allievo.
L'indisciplina, il comportamento aggressivo, la demotivazione verso lo
studio e la scarsa cooperazione, costituiscono stressor con cui l'insegnante
deve fare i conti (Rossati e Magro, 1999).
Una conferma di ciò è offerta da un'indagine svolta da Favretto e
Rappagliosi (1983) su 150 insegnanti elementari, che evidenzia come fonte di
stress il comportamento degli alunni ed il difficile rapporto con loro, ma
anche dalle più recenti ricerche di Di Maria, Di Nuovo e Lavanco (2001).
A tal proposito sono interessanti le ricerche di Olweus (1993) sul bullismo
- ossia la prevaricazione o la vittimizzazione di uno studente da parte di
uno o più compagni - quale fattore negativo che incide sul clima scolastico,
in quanto determina una difficoltà a mantenere l'ordine e la disciplina,
rapporti sociali meno positivi e un atteggiamento negativo nei confronti del
lavoro scolastico.
Problematiche diverse possono, poi, essere connesse alla presenza in classe
di un alunno con handicap (Nisi, De Santis e Peronato, 1999) e ai problemi
di collaborazione con l'insegnante di sostegno che ne possono derivare (Favretto
e Rappagliosi, 1988b).
L'insegnante, inoltre, all'interno del contesto scolastico deve rapportarsi
anche con colleghi, dirigenti scolastici, genitori, ed anche qui possono
sorgere conflittualità e situazioni problematiche.
I colleghi, così come i dirigenti scolastici, possono rappresentare fonti di
sostegno o di frustrazione (Rossati e Magro, 1999) e, quindi, possono dare o
non dare quell'aiuto sociale necessario per affrontare lo stress in modo
adeguato. Ma è opinione diffusa che è raro trovare colleghi disponibili a
collaborare sul piano didattico (Giovannini, 1990); difficoltà possono
sorgere, poi, dal confronto con gli altri, dalla mancanza di un linguaggio
comune, dal non sentirsi in sintonia con gli altri (Ghio, 1999). Persino le
stesse riunioni di colleghi, possibilità di scambio e comunicazioni
professionali costruttive, finiscono con l'essere, invece, degli sterili
campi di battaglia o occasioni di conversa¬zione su argomenti frivoli
(Magro, 1997).
Il dirigente scolastico, che dovrebbe organizzare e coordinare il lavoro
degli insegnanti, spesso si limita a risolvere le questioni burocratiche e a
far valere la propria autorità: non a caso egli è considerato da molti
insegnanti come non sempre capace di svolgere le proprie funzioni e
caratterizzato da un comportamento burocratico e autoritario (Giovannini,
1990).
L'insegnante può anche incontrare difficoltà nel rapporto con i genitori
degli alunni per mancanza di collaborazione e rigidità culturali e sociali (Favretto
e Rappagliosi, 1990).
Al di là della dimensione sociale (relazioni con allievi, colleghi,
dirigenti, genitori), ciò che può essere fonte di malessere all'interno
della scuola può derivare:
a. da carenze di servizi e sussidi: mancanza di spazi, palestre,
biblioteche, collaborazioni con i servizi psicopedagogici (Favretto e
Rappagliosi, 1990);
b. dal percepire la propria preparazione, iniziale e in itinere, come
insufficiente ed avvertire la necessità di aggiornarsi culturalmente e/o
professionalmente (Giovannini, 1990);
c. dalla mancanza di incentivi esterni, che può portare a non impegnarsi
ulteriormente in presenza di situazioni di insuccesso e frustrazioni (Rossati
e Magro, 1999).
Secondo Favretto e Rappagliosi (1990) i sintomi psicosomatici accusati più
frequentemente dalla popolazione degli insegnanti stressati e/o in burnout
sono: labilità psichica, disturbi del sonno, distonie cardio-vascolari,
tensione e logoramento psicofisico, tensione neurovegetativa, disturbi di
natura gastroenterica e dermopatie psicogene.
In conclusione: far fronte allo stress
Sul piano dei comportamenti e degli atteggiamenti, l'insegnante può
fronteggiare gli agenti stressanti in tre modi diversi (Sylvester, 1977):
1. può reagire ad essi assumendo atteggiamenti rigidi e minacciosi nei
confronti degli alunni indisciplinati, rendendo molto intensa l'attività
scolastica per impedire agli alunni di comportarsi aggressivamente, ecc.;
2. può rifuggirli, per esempio ammalandosi nei momenti più critici, oppure
mandando dal dirigente scolastico gli alunni più indisciplinati;
3. infine, può ignorarli o sopportarli presenziando solo "fisicamente" alle
riunioni ritenute inutili, concedendo ai ragazzi la più ampia libertà e così
via.
Secondo Magro (1997), nel momento in cui viene meno la relazione d'aiuto con
l'alunno, l'insegnante assume comportamenti di distacco sia fisico che
affettivo. Così applicherà in modo rigido le procedure, adottando forme
tradizionali di insegnamento, rispettando i tempi previsti della
pro¬grammazione senza tenere conto dei tempi richiesti dall'apprendimento
individuale. Il docente non soltanto non permetterà l'instaurarsi di un
rapporto amichevole e avrà sentimenti negativi verso l'allievo, ma
attribuirà anche l'insuccesso scolastico del ragazzo esclusivamente alla sua
negligen¬za, al suo modesto intelletto, o ancora alla sua situazione
familiare, dere¬sponsabilizzandosi del tutto.
Rossati e Magro (1999) si chiedono, allora, quanto si può collegare lo
stress e il burnout degli insegnanti con l'assenteismo e la cessazione
anticipata del servizio (per esempio, le baby-pensioni): gli autori hanno
notato la presenza di una relazione tra questi fenomeni, ma non è una
relazione lineare e diretta, per cui si devono tenere in considerazione
anche altri fattori (ad esempio il minore riconoscimento sociale, la
riduzione del reddito relativo, l'aumento del carico di lavoro).
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